Per tutti coloro che nel nostro Paese affrontano il tema fiscale sulla base di studi e dati, sentire o leggere le affermazioni di molti esponenti politici, a volte anche ai massimi livelli di responsabilità e di alcune parti sociali, genera parecchio sconforto.
C’è chi si avventura a proporre riduzioni dei contributi sociali (la cosiddetta fiscalizzazione degli oneri sociali) dimenticandosi che la metà degli italiani già non li paga e che per 25 anni il Sud (tutto e fino al 1996) ha avuto lo «sgravio totale dei contributi» senza riuscire a creare mezzo punto percentuale in più di occupazione.
C’è chi punta più in alto proponendo percentuali rilevanti (15%) senza spiegare quanto costerà alla collettività o di quanto si ridurrà la pensione: un lavoratore dipendente versando il 33% di contributi sulla retribuzione annua lorda per un periodo di 35 anni, otterrà una pensione pari a circa il 72% dell’ultima retribuzione. Se paga 15 punti in meno (cioè solo il 18%) che pensione prenderà? Meno della metà.
E che dire di un lavoratore autonomo (artigiano, commerciante o imprenditore agricolo) che versando oggi il 24% si troverebbe a pagare meno del 14%, che pensione prenderà?
Contributi e previdenza
È persino ovvio che se invece mantenessimo la stessa pensione nonostante la riduzione dei contributi, l’onere graverebbe sugli stessi lavoratori sotto forma di maggiori tasse perché la quota di pensione non coperta da contributi diverrebbe a carico della fiscalità generale.
Supponendo che entrino nel mercato del lavoro 400 mila nuovi lavoratori con un reddito medio di 20 mila euro, solo per il primo anno lo sconto contributivo costerebbe oltre un miliardo, già al quinto anno costerebbe oltre 18 miliardi.
Il cuneo e i conti
Che dire poi di quelli che vorrebbero la riduzione del cosiddetto «cuneo fiscale e contributivo», ma non per tutti: solo fino a redditi di non più di 29 mila euro, il limite del «bonus» da 80 euro introdotto dal governo Renzi, che costa ogni anno oltre 9,5 miliardi e di cui beneficiano oltre 11,7 milioni di contribuenti.
Spero sappiano che in base alle ultime dichiarazioni dei redditi ai fini Irpef risulta che oltre il 46% degli italiani (i primi 2 scaglioni di redditi) paga meno del 2,7% di tutta l’Irpef, in totale 4,32 miliardi, ma ne riceve per la sola sanità ben 47. Se poi aggiungiamo anche i contribuenti che dichiarano dai 15 ai 20 mila euro lordi, ne consegue che i primi tre scaglioni di redditi versano in totale 15,8 miliardi di Irpef (su un totale di 164,7), ma ricevono per le sole cure sanitarie 51,2 miliardi.
Se ne deduce che il 60% dei contribuenti (lavoratori dipendenti compresi) versa attorno al 10% di tutta l’Irpef.
Si potrebbe obiettare correttamente che questi cittadini pagano anche le imposte indirette, Iva e accise; stimando il gettito sulla base delle aliquote in vigore si può dire che il primo scaglione versa imposte indirette sulla mediana pari a 282 euro, 844 euro per il secondo scaglione e 1.313 euro il terzo, che è l’unico a pagarsi almeno la sanità, mentre i primi 2 non ci riescono.
Chi paga il welfare
Poi c’è da finanziare tutto il resto: istruzione, viabilità, infrastrutture, spese di funzionamento del sistema pubblico e via dicendo. Chi paga e finanzia il nostro welfare?
Per contro esiste una minoranza di poco meno di 5 milioni di dichiaranti (quelli con redditi superiori a 35 mila euro) che rappresentano solo il 12% degli italiani, ma pagano quasi il 60% di Irpef. Spesso il sindacato afferma che gli unici che pagano le imposte sono i lavoratori dipendenti e i pensionati, vero. Ma di quelli che rappresenta non ce ne sono molti. Prendiamo i pensionati, che al dicembre 2018 erano poco più di 16 milioni. Di questi la metà non paga imposte perché totalmente o parzialmente assistita dallo Stato (cioè da quelli che le tasse le pagano); in definitiva i primi 10 milioni di pensionati pagano 2 miliardi di Irpef.
Quelli che pagano davvero la maggior parte dei circa 50 miliardi che gravano sulle pensioni sono coloro che hanno assegni da 2.500 euro lordi in su, meno di 1,6 milioni (cioè il 10%), ma che versano il 60 per cento. Spesso non sono tutelati dai sindacati maggiormente rappresentativi, ma da altre sigle che ai governi della «dittatura della maggioranza» non interessano perché sono pochi e spesso non votano.
Pensionati e pensioni d’oro
È proprio nei confronti di questi pensionati che si sono scatenati tutti i governi bloccando l’indicizzazione della pensione al costo della vita.
Dal 2006 a oggi un pensionato con un assegno mensile di 2.500 euro ha perso praticamente una annualità di pensione, quasi 30 mila euro, in 13 anni e altrettanti ne perderà nei prossimi 10 anni di fruizione della pensione. Che dire poi dei 36 mila (lo 0,20% del totale) definiti pensionati d’oro ai quali è stata «tagliata» la pensione con l’arroganza populista di chi i calcoli non li sa fare, senza alcuna giustificazione?
Se, come dicono alcuni, i soldi si prendono dove ci sono (leggi: patrimoniale) per finanziare provvedimenti sbagliati e inefficienti come flat tax per i professionisti fino a 65 mila euro, reddito di cittadinanza, quota 100, bonus da 80 euro, 14° mensilità, ape social (era così difficile introdurre anche nel settore produttivo, commercio e servizi i fondi esubero che da quasi 20 anni hanno risolto il problema per banche e assicurazioni?) e altri provvedimenti assistenziali per l’Italia non ci sono molte speranze.
I giovani meritevoli continueranno a scappare e quel 12% di schiavi fiscali che non interessano alla politica si ridurranno ancora di più. Poi chi finanzierà il nostro generoso stato sociale? Passeranno al pignoramento della seconda casa? O preleveranno nottetempo il 10% dai patrimoni di chi ha contribuito allo sviluppo del Paese?
Purtroppo, stante l’enorme debito pubblico e la scarsa crescita potremmo arrivare a nuovi eccessi. Poi l’abisso.