ROMA L'Aventino leghista - nato per protestare contro l'assegnazione del reddito di cittadinanza all'ex Br Federica Saraceni - ha il sapore delle pizzette della buvette della Camera (senza nulla togliere ai supplì, sia chiaro). I deputati di Matteo Salvini non entrano in Aula e dunque l'onorevole bar, ma anche i comodi divanetti del Transatlantico sono ottimi rifugi dove passare il tempo. Bella la vita? «Macché - risponde il peones lumbard - intanto sto pensando al territorio: scuole, strade, rifiuti. Mica che le chiacchiere come qui!».
La mossa ordinata dal capo del Carroccio però adesso si intreccia con l'ultimo voto sul taglio dei parlamentari. Appuntamento previsto: martedì. All'andata - cioè ai tempi del governo gialloverde - la Lega disse tre volte sì. Perché questi erano gli accordi (il mitologico contratto) con Luigi Di Maio che sulla riforma costituzionale ha costruito una narrazione iper-pop: «Più risparmi per gli italiani, meno soldi alla kastaaaa», si legge sui social grillini. Peccato che adesso le cose, come si sa, sono cambiate: siamo arrivati alla finalissima e in campo c'è un'altra formazione. E Salvini? Che farà Salvini? Non ha ancora dato disposizioni? Insomma, cosa dovrà votare la Lega la prossima settimana? «L'unico Conte che conosco è l'allenatore dell'Inter», risponde a chi gli chiede lumi, Massimo Garavaglia, ex potente viceministro all'Economia, ritornato deputato semplice. «Io mi occupo di numeri, ragazzi. Non chiedete a me», dice mentre se ne va con una cartellina sotto il braccio.
Anche il capogruppo alla Camera del Carroccio Riccardo Molinari al momento sembra non aver ricevuto ordini di scuderia. Di sicuro difficilmente si risolverà nelle prossime ore il casus belli dell'indignata protesta, ossia il sussidio all'ex brigatista. E allora, come confessa più di un big vicino «al Matteo», l'occasione potrebbe essere gustosa: non votare il taglio dei parlamentari. Sperando che, con un colpo di istinto d'autoconservazione, alla fine il parlamento non abbia i numeri per l'ultimo sì. Sarebbe un colpo di scena. Clamoroso. Da brividi.
D'altronde serve la maggioranza qualificata: 316 voti. Il nuovo asse giallorosso ha un agio di una trentina di deputati in più. «Ma i mal di pancia sono tantissimi. E questa roba non va giù a nessuno», dicono i leghisti ricordando la storiella dei capponi che si fanno la festa da soli per Natale.
Il problema è il Pd? La riforma ai dem non fa certo impazzire, tanto che finora si erano sempre opposto - con orgoglioso petto gonfiato - a «questa mossa demagogica».
IL MINISTRO Chi frequenta via Bellerio ci spera. Punta al colpo grosso: «Bastano raffreddori diffusi, assenze strategiche, chiamate al bagno all'improvviso: trenta voti non sono tantissimi, eh».
Federico D'Incà, ministro per i rapporti con il parlamento, dispensa fiducia: «La Lega? Non lo so, mi occupo dei voti della maggioranza, intanto». Per far indorare la pillola ai nuovi alleati, il M5S ha messo sul tavolo la nuova legge elettorale. Che dovrà andare - forse - di paripasso con la riforma costituzionale. Si cercano i famosi «contrappesi» innanzitutto. Anche per questo motivo ieri si sono riuniti i capigruppo della maggioranza di Camera e Senato per avviare il confronto, raggiungendo anche un'intesa sui tempi con cui andare avanti. Si parla di un accordo anche sulla decisione di uniformare le modalità di voto, sia quello attivo, sia quello passivo, tra Senato e Camera. Del resto, proprio Pd e Leu, nell'ambito dell'intesa sul programma di governo, avevano chiesto e ottenuto dai Cinque Stelle che la riduzione dei parlamentari, venisse accompagnata da «altre importanti modifiche della Costituzione e dei regolamenti parlamentari». In particolare si discute sul fatto che il Senato non sia più eletto su base regionale ma su base interregionale: in questo modo anche i piccoli avranno accesso a Palazzo Madama. D'Incà, veneto e pragmatico, parla di «tempi brevi sulla legge elettorale» e modifiche costituzionali «le più urgenti» entro il mese di ottobre, con una verifica su una seconda parte di riforme che dovrebbero essere completate «entro dicembre». Nella maggioranza si discute anche sul sistema: proporzionale puro, maggioritario ragionato con il doppio turno. E altri tecnicismi. Si punta a stringere. Ma gli occhi sono puntati sul voto di martedì. La Lega non si sa cosa farà. Nel frattempo spera e presidia (militarmente) la buvette: «Mi scalda una pizzetta?».