ROMA Raramente si era vista una sfilza così numerosa di «voto sì, ma». Forse mai era capitato di sentire tante volte i deputati dichiarare che si sarebbero espressi «convintamente a favore» di un provvedimento e, subito dopo, sciorinare critiche su critiche. È il taglio dei parlamentari, bellezza.
Perché ieri la Camera ha dato il quarto e definitivo via libera alla legge costituzionale che riduce il numero di deputati e senatori di un terzo, facendoli passare da 945 a 600, e lo ha fatto persino con una maggioranza plebiscitaria: 553 voti a favore, 14 contrari e due astenuti. La maggioranza si dimostra autosufficiente con 325 sì (ne bastavano 316), ma si aggiungono anche i voti delle opposizioni. «A differenza del Pd e di M5S la Lega non tradisce e mantiene la parola», chiosa Matteo Salvini. A esprimersi in dissenso, è stata praticamente solo +Europa oltre a pezzi del gruppo Misto.
MALUMORI In realtà, i malumori e i mal di pancia hanno attraversato tutti i partiti, compreso il M5S che, al termine della votazione, si è trovato in piazza per festeggiare una storica battaglia. Festeggia, soprattutto, Luigi Di Maio convinto di aver così rafforzato la sua leadership nel Movimento: «Abbiamo portato il Parlamento a riavvicinare i cittadini». E aggiunge, con un messaggio a Matteo Renzi: «Il prossimo test è la riforma della giustizia: se non dovessero esserci i numeri ne trarremo le conseguenze». La fronda, almeno per il momento, è rientrata, anche se 5 dissidenti grillini sono assenti ingiustificati al voto finale. A metterci la faccia, con un intervento in aperto dissenso, è però il solo Andrea Colletti.
Il governo è presente al gran completo. C'è chi, come l'ex grillino Matteo Dall'Osso, ironizza sui risparmi che effettivamente si avranno. «È lo 0,007%, neanche fosse un agente segreto». I pentastellati, invece, preferiscono dire che sono 300mila euro al giorno.
Regge il patto della nuova maggioranza giallo-rossa. L'accordo - che ha messo nero su bianco le prossime riforme da fare, a cominciare dalla legge elettorale - consente al Pd e a IV di giustificare l'incredibile capriola che li ha portati a dire sì dopo aver votato tre volte contro. «Il nostro no, quando eravamo all'opposizione, era un no convinto a difesa di questa istituzione, e siccome abbiamo chiesto e ottenuto delle garanzie, diciamo oggi convintamente sì», tenta di spiegare il capogruppo dem, Graziano Delrio. I renziani si sforzano molto meno di far credere che questa riforma gli vada a genio. Anzi, Roberto Giachetti spiega che se non fosse per «lealtà» al patto di maggioranza mai e poi mai avrebbe avallato il taglio. Tanto che annuncia di essere pronto a mettersi alla testa dei comitati referendari per il no.
Infatti, poiché la legge non ha ottenuto il via libera dei due terzi dei componenti di Camera e Senato nella seconda lettura, in base all'articolo 138 della Costituzione, potrà essere sottoposta a referendum popolare se, entro tre mesi dalla pubblicazione, ne faranno domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Ma è chiaro che un voto plebiscitario rende il referendum più difficile da sostenere.
Adesso però il Pd chiede che i patti vengano rispettati. «Siamo stati e saremo sempre leali», assicura Di Maio. Anche il premier Giuseppe Conte, presente in aula al momento del voto finale, lancia un segnale: «Un passo concreto per riformare le nostre istituzioni. Per l'Italia è una giornata storica».