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Data: 28/10/2019
Testata Giornalistica: IL MESSAGGERO
    IL MESSAGGERO

L'Umbria al centrodestra Tesei travolge Bianconi flop dell'asse rosso-giallo. Preso l’ex feudo di sinistra: l’onda del cambiamento più forte di ogni ideologia. Conte sotto accusa: se salto non c’è nessun altro premier

 
 
Preso l’ex feudo di sinistra: l’onda del cambiamento più forte di ogni ideologia
 
PERUGIA E' la fine di una certezza politica e di un mito che, già barcollante e sfregiato, non si pensava crollasse con questa virulenza. Viene giù il muro dell'Umbria, si schianta il rosso più rosso con il suo sistema fatto di cooperative, di ong, di centri di accoglienza e di solidarietà, di Arci e di Coldiretti, di chiesa di sinistra (quasi tutta), di catto-comunismo, di una storia, di un'epopea, di una classe dirigente che viene da lontano e ha riprodotto se stessa senza veri innesti giovanili e reali forme di innovazione. «La Germania dell'Est è durata meno di noi e noi ci siamo schiantati peggio di loro», s'ironizza quaggiù di fronte a un'affluenza ai seggi straordinaria, di massa, senza rabbia ma con una determinazione da popolo compatto, tutti scheda in mano per sfrattare i padroni di sempre.
La nuova, improvvisata, subcultura grillo-dem ha malamente provato a sostituirsi a quel che c'era, ha tentato la discontinuità nella continuità ossia il trasformismo in rosso-giallo, ma niente: gli umbri sono gente che sa vedere le cose e hanno detto basta. Ma pure il salvinismo trionfante e la destra-centro che ha azzerato gli avversari dovranno stare attenti alla praticità e alla maturità politica di questa gente: se il Capitano, come lo chiamano i suoi, pensa di essere diventato il capitano di ventura di un popolo che si mette nelle sue mani si sbaglia. Hanno votato per la Lega, ma pronti a ricredersi se la sostituzione di un sistema bloccato dovrà risolversi in un flop amministrativo - la neo-governatrice Tesei dà comunque garanzie di serietà, ma occhio alla burocrazia regionale che almeno all'inizio remerà contro - e in risposte vage o solo propagandistiche ai bisogni di questa terra.
PERIFERIE «Quando è troppo è troppo. E 50 anni dello stesso potere sono troppi», lo dice una anziana signora, Carolina Intieri, davanti al seggio della scuola Volumni, a Ponte San Giovanni, periferia di Perugia. Dall'altra parte della strada c'è la parrocchia di San Bartolomeo. I fedeli escono dalla chiesa e vanno al seggio. «I preti ci dicono di votare in un modo, ma io voterò in un altro modo», è il mood dei più. Ma Salvini sparge odio? «Questo lo dice lei, e comunque gli altri si sono squagliati». Nelle sezioni elettorali c'è il grillino pentito che è già passato alla Lega ma non ha il coraggio di ammetterlo e dice: «I notabili del Pd hanno cercato si sfruttare la forza della nostra protesta, l'esasperazione dell'opinione pubblica che vuole cambiare, e hanno provato ad annettersela con questa strana alleanza. Ma noi non siamo mica babbei!».
Ogni fine impero ha le sue conseguenze immediate. Come questa che riguarda Renzi il quale si aspettava - e forse ci sperava - il crollo del Pd puntualmente avvenuto. Già nei prossimi giorni, con i dem in smobilitazione, potrebbero nascere nel consiglio comunale di Perugia e in quello di Terni i gruppi di Italia Viva. E così anche in Regione e il nome sarà Umbria Viva. E l'umore dei militanti dem lungo la giornata ieri variava così: «Perderemo di dieci punti o di venti?». Il Pd è passato dal 44 per cento del 2008, candidato premier Veltroni, al 24,9 delle politiche 2018 con Renzi segretario e al 23,9 delle ultime Europee (con la Lega al 38, primo partito). La spiegazione è semplice secondo Alberto Stramaccioni, storico ma anche ex deputato dell'Ulivo: «La crescita della sinistra in questi decenni è andata di pari passo con quella dello stato sociale. Con il ridursi del benessere, è aumentata l'insofferenza verso il governo locale». Prima il centrodestra s'è preso il 62 per cento dei comuni, ora tutto il pacchetto regionale.
RIVOLUZIONE Si sta avviando al seggio di Ponte San Giovanni un quarantenne, Francesco Orsina, che si occupa di fondi europei. Racconta: «Votavo Pci, poi Rifondazione Comunista e via dicendo. Ora scelgo la Lega. Ma attenzione, non dovete credere che nella nostra regione cambierà tutto. C'è una stratificazione sociale consolidata, famiglie che dominano e continueranno a dominare, rapporti politici e istituzionali di lungo periodo che troveranno correzioni e nuove composizioni ma in un quadro di stabilità. Anche la Chiesa, così come il resto dell'establishment che strepita contro Salvini, avrà modo di riposizionarsi. Basti vedere Perugia». Dove c'è un apprezzato sindaco al secondo mandato, il forzista Andrea Romizi, e tutto va avanti senza troppi scossoni con i pezzi del potere tradizionale che sulle prime non sapevano come riposizionarsi e poi s'è trovato un nuovo sistema di convivenza. «Chi crede che in Umbria ci sarà la rivoluzione non ci conosce», dice un anziano elettore ex Pci, mentre esce dal seggio di Bastia. Ma come fa un comunista a votare Salvini? «La Lega è tante cose, non è soltanto le grida e gli slogan del suo capo». Si spera che la Tesei, non un'agitatrice ma un'amministratrice, ex sindaco di Montefalco, riesca a trovare quella rete di competenze tecnico-burocratiche in grado di risollevare una regione allo stremo. Il «votavo a sinistra e ora voto Lega» è il tormentone rimbombato ovunque nei seggi, da Montecastrilli a Citta di Castello, da Umbertide a Corciano, da Foligno in giù e in su. E anche, ancora di più, ogni voto grillino mancato è stato un voto a favore della ruspa salvinista che ha spianato i 5 stelle. Il risentimento sociale anche verso gli immigrati prima accolti a braccia aperte e poi sempre meno - ma l'odio razziale non c'è, e non appartiene minimamente al carattere antropologico degli umbri - ha contribuito a produrre questo ribaltone generale. Che il mainstream sui social e nei ritrovi della sinistra ha già cominciato a trattare così: «L'Umbria è terra di cultura, di storia, di pace e di amore, come ha potuto mettersi nelle mani di uno come Salvini?». Infatti, non ci si è messa. Da stamane, il cosiddetto Capitano - in cerca di altri scalpi - non penserà più a questa regione. E non è detto che sia un male.
 
Conte sotto accusa: se salto non c’è nessun altro premier

ROMA Sapeva bene come sarebbe andata, ma ha scelto di metterci comunque la faccia. Anzi, quando Nicola Zingaretti lo ha chiamato, Giuseppe Conte non ha esitato a presentarsi all'evento di Narni perchè «governiamo insieme e non c'è nulla di cui vergognarsi». Ora quella foto, fatta per aiutare due leader e un candidato in difficoltà, rischia di inchiodare il presidente del Consiglio ad una sconfitta annunciata, ma non meno pesante, la cui gestione non sarà facile, specie ora che in Parlamento arriva la manovra di bilancio.
GLI AMICI Eppure a palazzo Chigi non temono riflessi sulla tenuta del governo perché il test umbro era sì importante, «ma circoscritto» nelle dimensioni e combattuto non senza difficoltà dall'alleanza che ha sostenuto Bianconi. «La debolezza» del candidato «scelto all'ultimo momento» ha inciso - sostengono a palazzo Chigi - così come «un peso rilevante» l'hanno avuto le vicende giudiziarie del Pd e i tormenti dell'elettore grillino che solo un paio di mesi fa era con Salvini, contro Zingaretti, e che venerdì ha visto plasticamente capovolti amici e nemici ritrovandosi dalla parte del partito di Catiuscia Marini.
Malgrado la sconfitta umbra, Conte è deciso ad andare avanti nella formula che lo ha riportato a palazzo Chigi dopo l'esperienza gialloverde. Ci vorrà del tempo - sostiene - prima che l'alleanza venga percepita non come frutto dell'emergenza, ma come intesa strutturale. E il tempo è dalla sua parte anche se ora il problema saranno le reazioni dei partiti che sostengono l'esecutivo. E le preoccupazioni maggiori per Conte arrivano dal M5S e da Luigi Di Maio il cui rapporto con il premier procede tra alti e bassi. Chiudere con l'Umbria l'esperienza delle alleanze con il Pd, solo sulla carta permetterebbe ai 5S di avere maggiore libertà. Certamente finirebbe col dare ragione a chi, come Matteo Renzi, da quell'intesa ha preso le distanze, sostenendo che la legislatura - e forse non il governo - dovrà arrivare almeno all'elezione del nuovo Capo dello Stato. Ma per Conte distinguere tra la durata della legislatura e quella dell'attuale governo è pericoloso perché oltre a fiaccare l'esecutivo indebolisce i due principali partiti della coalizione a rischio di scissioni e fughe di novelli responsabili.
Sinora il presidente del Consiglio si è guardato bene dall'alimentare i sospetti di Di Maio sull'esistenza di una corrente giuseppi dentro il M5S. Eppure il numero dei lealisti cresce in proporzione alle incursioni renziane e all'inasprirsi nel M5S della polemica degli orfani di poltrone ministeriali. Il ruolo stabilizzatore di Conte potrebbe allora emergere perché la legislatura vada avanti, ma non ad ogni costo. Immaginare un altro esecutivo sulle macerie di un secondo esperimento fallito - e magari retto solo dalla voglia di decine di transfughi di non andare a casa - è complicato anche per uno come Mario Draghi che dal giorno della sue uscita dalla Bce viene evocato, spesso a sproposito.
Un crescendo di instabilità Conte lo aveva già messo nel conto e non tanto per l'atteso risultato umbro, quanto per l'arrivo in Parlamento della legge di Bilancio e del decreto fiscale. 5S e Italia Viva promettono battaglia, ma alla fine sarà un voto di fiducia a contare chi veramente ha voglia di far saltare il banco. Inizialmente sospeso tra il ruolo di premier-garante, che lo ha caratterizzato nella precedente esperienza di governo, e quello di presidente del Consiglio frutto di un'alleanza politica, Conte intende accentuare il suo peso, forte anche di un gradimento personale che lo colloca ben oltre i leader della maggioranza.
D'altra parte la sconfitta in Umbria è la sconfitta di Zingaretti e di Di Maio che, seppur con differente convinzione, hanno puntato sull'intesa che però sembra aver bisogno di altro tempo per poter sedimentare nei rispettivi elettorati. La durata dell'attuale governo potrebbe quindi diventare decisiva per tutti e due i leader che fuori della porta non hanno solo le ruspe salviniane ma anche una folta schiera di avversari interni e novelli scissionisti. Sullo sfondo resta ancora il Russiagate e quella richiesta di informazioni avanzata dall'amministrazione Trump sul comportamento degli ultimi due governi Pd. Conte, sia davanti al ministro della giustizia Usa William Barr, che durante l'audizione al Copasir, ha difeso tutti i governi che lo hanno preceduto. Non farlo o non presentarsi a Narni, avrebbe destabilizzato l'esecutivo più del voto di ieri.

 

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