PERUGIA La notte racconta una valanga. L'exit poll della Rai era stato impietoso, le proiezioni sono anche più nette: dopo quarantanove anni, quattro mesi e qualche giorno l'Umbria non è più rossa. Con un percentuale del 58,2 (contro l'iniziale 57 per cento), Donatella Tesei, senatrice, già sindaco di Montefalco, ex Pdl, scelta dalla Lega in tempi non sospetti e con largo anticipo, ha travolto tutti.
La Tesei ha sopraffatto Vincenzo Bianconi, l'albergatore di Norcia candidato del patto rosso-giallo costruito in Umbria troppo in fretta e subito difettoso. Suo un risultato del 37,1 per cento contro il precedente 37,2 della prima proiezione. L'argine messo in piedi dal centrosinistra all'ultimo momento per tentare di salvare il fortino sotto assedio non ha retto.
Troppo ardita per il Pd, quanto per gli elettori grillini, l'alleanza tra formazioni che non si sono mai sopportate. Normale: tra i pentastellati c'era chi esultava per aver scritto l'esposto da cui era partita l'inchiesta sui concorsi truccati all'ospedale di Perugia. Ovvio che tra i dem ci fosse chi masticava rabbia per essere stato colpito e affondato.
I PARTITI La riprova che il Patto civico sia rivelato infruttuoso arriva dalla proiezioni sui dati dei partiti: il Pd si attesta sul 22,3 per cento (24 per cento alle Europee), mentre Cinquestelle dimezza (7,7 per cento) il già magro bottino delle Europee del 14,6 per cento. Giubilo del centrodestra: rispetto a un anno fa, le Lega perde solo un punto percentuale (37,1 contro il 38,2 delle Europee), prendendo per buone l'ultima proiezione Rai, regge anche Forza Italia (5,8 per cento contro il 6,4 di un anno fa). Infine, Fratelli d'Italia che non solo supera i Cinquestelle, ma stacca anche gli azzurri con un più 4 per cento conquistato rispetto alla consultazione continentale, arrivando al 10%. Nessuna lista civica ha superato il 4 per cento.
Donatella Tesei ha vinto con e nonostante Matteo Salvini. Il Capitano della Lega nell'ultimo mese ha occupato l'Umbria: dal quartiere di Fontivegge a Perugia, il più difficile della città, alla piazzetta e del piccolo borgo di Castel Ritaldi. Per non correre il rischio di finire nel cono d'ombra del leader del Carroccio, lei s'è mossa spesso da sola, sfruttando il vento «del cambiamento» senza esserne travolta. Vicina, ma distinta. «Io non ho mai avuto tessere di partito, solo quella del Pdl», ricorda spesso Tesei.
LA RINCORSA Rincorsa lunghissima quella della nuova presidente. Accettò la candidatura a Natale di due anni fa. Quella volta Matteo Salvini si presentò a Montefalco per un paio di giorni di relax e offrì alla sindaco un pacchetto unico: candidatura al parlamento a marzo 2018 e due anni dopo, eletta o meno, corsa per conquistare la Regione. A disegnare la strategia era stato il fidato Stefano Candiani, inviato nel 2014 a fare il commissario della Lega in Umbria, arrivato a guidare un partito con 14 militanti e ripartito lasciando 4 parlamentari e il sindaco di Terni, tutti tenuti ancora d'occhio a distanza.
Quella volta, a Natale 2017, Donatella Tesei accettò, e vinse la prima battaglia, assicurandosi un collegio uninominale al Senato tutt'altro che facile. Poi lo scorso aprile è arrivato lo scandalo della sanità umbra. L'inchiesta sui concorsi all'ospedale di Perugia ha portato ai domiciliari l'allora segretario del Pd Gianpiero Bocci e l'assessore regionale alla Sanità Luca Barberini, pure lui del Pd, da lì alle dimissioni di Catiuscia Marini (indagata) è passato poco più di un mese: era il 20 maggio scorso.
INDIPENDENTE E allora, siccome pacta sunt servanda, la senatrice Tesei, eletta come indipendente sotto il simbolo della Lega ha accettato di lasciare la presidenza della Commissione Difesa del Senato un po' prima del previsto. «Perché me lo ha chiesto l'Umbria - ha ricordato più volte nelle ultime settimane - e non certo perché avessi bisogno di una poltrona».
Ma se la volata della Tesei è stata studiata, lunghissima, perfino noiosa in alcuni momenti (i sondaggi l'hanno data sempre in testa), quella dello sfidante sconfitto Vincenzo Bianconi è apparsa esattamente l'opposto. Confusa, brevissima, arruffata. A confusione s'è sommata confusione, perché per arrivare al nome condiviso Pd e M5S hanno dovuto bruciarsi a vicenda un paio di candidature. Per informazioni, chiedere al sindaco di Assisi Stefania Proietti, o ad Andrea Fora sul quale il Pd aveva puntato all'inizio.
Preso l’ex feudo di sinistra: l’onda del cambiamento più forte di ogni ideologia
PERUGIA E' la fine di una certezza politica e di un mito che, già barcollante e sfregiato, non si pensava crollasse con questa virulenza. Viene giù il muro dell'Umbria, si schianta il rosso più rosso con il suo sistema fatto di cooperative, di ong, di centri di accoglienza e di solidarietà, di Arci e di Coldiretti, di chiesa di sinistra (quasi tutta), di catto-comunismo, di una storia, di un'epopea, di una classe dirigente che viene da lontano e ha riprodotto se stessa senza veri innesti giovanili e reali forme di innovazione. «La Germania dell'Est è durata meno di noi e noi ci siamo schiantati peggio di loro», s'ironizza quaggiù di fronte a un'affluenza ai seggi straordinaria, di massa, senza rabbia ma con una determinazione da popolo compatto, tutti scheda in mano per sfrattare i padroni di sempre.
La nuova, improvvisata, subcultura grillo-dem ha malamente provato a sostituirsi a quel che c'era, ha tentato la discontinuità nella continuità ossia il trasformismo in rosso-giallo, ma niente: gli umbri sono gente che sa vedere le cose e hanno detto basta. Ma pure il salvinismo trionfante e la destra-centro che ha azzerato gli avversari dovranno stare attenti alla praticità e alla maturità politica di questa gente: se il Capitano, come lo chiamano i suoi, pensa di essere diventato il capitano di ventura di un popolo che si mette nelle sue mani si sbaglia. Hanno votato per la Lega, ma pronti a ricredersi se la sostituzione di un sistema bloccato dovrà risolversi in un flop amministrativo - la neo-governatrice Tesei dà comunque garanzie di serietà, ma occhio alla burocrazia regionale che almeno all'inizio remerà contro - e in risposte vage o solo propagandistiche ai bisogni di questa terra.
PERIFERIE «Quando è troppo è troppo. E 50 anni dello stesso potere sono troppi», lo dice una anziana signora, Carolina Intieri, davanti al seggio della scuola Volumni, a Ponte San Giovanni, periferia di Perugia. Dall'altra parte della strada c'è la parrocchia di San Bartolomeo. I fedeli escono dalla chiesa e vanno al seggio. «I preti ci dicono di votare in un modo, ma io voterò in un altro modo», è il mood dei più. Ma Salvini sparge odio? «Questo lo dice lei, e comunque gli altri si sono squagliati». Nelle sezioni elettorali c'è il grillino pentito che è già passato alla Lega ma non ha il coraggio di ammetterlo e dice: «I notabili del Pd hanno cercato si sfruttare la forza della nostra protesta, l'esasperazione dell'opinione pubblica che vuole cambiare, e hanno provato ad annettersela con questa strana alleanza. Ma noi non siamo mica babbei!».
Ogni fine impero ha le sue conseguenze immediate. Come questa che riguarda Renzi il quale si aspettava - e forse ci sperava - il crollo del Pd puntualmente avvenuto. Già nei prossimi giorni, con i dem in smobilitazione, potrebbero nascere nel consiglio comunale di Perugia e in quello di Terni i gruppi di Italia Viva. E così anche in Regione e il nome sarà Umbria Viva. E l'umore dei militanti dem lungo la giornata ieri variava così: «Perderemo di dieci punti o di venti?». Il Pd è passato dal 44 per cento del 2008, candidato premier Veltroni, al 24,9 delle politiche 2018 con Renzi segretario e al 23,9 delle ultime Europee (con la Lega al 38, primo partito). La spiegazione è semplice secondo Alberto Stramaccioni, storico ma anche ex deputato dell'Ulivo: «La crescita della sinistra in questi decenni è andata di pari passo con quella dello stato sociale. Con il ridursi del benessere, è aumentata l'insofferenza verso il governo locale». Prima il centrodestra s'è preso il 62 per cento dei comuni, ora tutto il pacchetto regionale.
RIVOLUZIONE Si sta avviando al seggio di Ponte San Giovanni un quarantenne, Francesco Orsina, che si occupa di fondi europei. Racconta: «Votavo Pci, poi Rifondazione Comunista e via dicendo. Ora scelgo la Lega. Ma attenzione, non dovete credere che nella nostra regione cambierà tutto. C'è una stratificazione sociale consolidata, famiglie che dominano e continueranno a dominare, rapporti politici e istituzionali di lungo periodo che troveranno correzioni e nuove composizioni ma in un quadro di stabilità. Anche la Chiesa, così come il resto dell'establishment che strepita contro Salvini, avrà modo di riposizionarsi. Basti vedere Perugia». Dove c'è un apprezzato sindaco al secondo mandato, il forzista Andrea Romizi, e tutto va avanti senza troppi scossoni con i pezzi del potere tradizionale che sulle prime non sapevano come riposizionarsi e poi s'è trovato un nuovo sistema di convivenza. «Chi crede che in Umbria ci sarà la rivoluzione non ci conosce», dice un anziano elettore ex Pci, mentre esce dal seggio di Bastia. Ma come fa un comunista a votare Salvini? «La Lega è tante cose, non è soltanto le grida e gli slogan del suo capo». Si spera che la Tesei, non un'agitatrice ma un'amministratrice, ex sindaco di Montefalco, riesca a trovare quella rete di competenze tecnico-burocratiche in grado di risollevare una regione allo stremo. Il «votavo a sinistra e ora voto Lega» è il tormentone rimbombato ovunque nei seggi, da Montecastrilli a Citta di Castello, da Umbertide a Corciano, da Foligno in giù e in su. E anche, ancora di più, ogni voto grillino mancato è stato un voto a favore della ruspa salvinista che ha spianato i 5 stelle. Il risentimento sociale anche verso gli immigrati prima accolti a braccia aperte e poi sempre meno - ma l'odio razziale non c'è, e non appartiene minimamente al carattere antropologico degli umbri - ha contribuito a produrre questo ribaltone generale. Che il mainstream sui social e nei ritrovi della sinistra ha già cominciato a trattare così: «L'Umbria è terra di cultura, di storia, di pace e di amore, come ha potuto mettersi nelle mani di uno come Salvini?». Infatti, non ci si è messa. Da stamane, il cosiddetto Capitano - in cerca di altri scalpi - non penserà più a questa regione. E non è detto che sia un male.
Conte sotto accusa: se salto non c’è nessun altro premier
ROMA Sapeva bene come sarebbe andata, ma ha scelto di metterci comunque la faccia. Anzi, quando Nicola Zingaretti lo ha chiamato, Giuseppe Conte non ha esitato a presentarsi all'evento di Narni perchè «governiamo insieme e non c'è nulla di cui vergognarsi». Ora quella foto, fatta per aiutare due leader e un candidato in difficoltà, rischia di inchiodare il presidente del Consiglio ad una sconfitta annunciata, ma non meno pesante, la cui gestione non sarà facile, specie ora che in Parlamento arriva la manovra di bilancio.
GLI AMICI Eppure a palazzo Chigi non temono riflessi sulla tenuta del governo perché il test umbro era sì importante, «ma circoscritto» nelle dimensioni e combattuto non senza difficoltà dall'alleanza che ha sostenuto Bianconi. «La debolezza» del candidato «scelto all'ultimo momento» ha inciso - sostengono a palazzo Chigi - così come «un peso rilevante» l'hanno avuto le vicende giudiziarie del Pd e i tormenti dell'elettore grillino che solo un paio di mesi fa era con Salvini, contro Zingaretti, e che venerdì ha visto plasticamente capovolti amici e nemici ritrovandosi dalla parte del partito di Catiuscia Marini.
Malgrado la sconfitta umbra, Conte è deciso ad andare avanti nella formula che lo ha riportato a palazzo Chigi dopo l'esperienza gialloverde. Ci vorrà del tempo - sostiene - prima che l'alleanza venga percepita non come frutto dell'emergenza, ma come intesa strutturale. E il tempo è dalla sua parte anche se ora il problema saranno le reazioni dei partiti che sostengono l'esecutivo. E le preoccupazioni maggiori per Conte arrivano dal M5S e da Luigi Di Maio il cui rapporto con il premier procede tra alti e bassi. Chiudere con l'Umbria l'esperienza delle alleanze con il Pd, solo sulla carta permetterebbe ai 5S di avere maggiore libertà. Certamente finirebbe col dare ragione a chi, come Matteo Renzi, da quell'intesa ha preso le distanze, sostenendo che la legislatura - e forse non il governo - dovrà arrivare almeno all'elezione del nuovo Capo dello Stato. Ma per Conte distinguere tra la durata della legislatura e quella dell'attuale governo è pericoloso perché oltre a fiaccare l'esecutivo indebolisce i due principali partiti della coalizione a rischio di scissioni e fughe di novelli responsabili.
Sinora il presidente del Consiglio si è guardato bene dall'alimentare i sospetti di Di Maio sull'esistenza di una corrente giuseppi dentro il M5S. Eppure il numero dei lealisti cresce in proporzione alle incursioni renziane e all'inasprirsi nel M5S della polemica degli orfani di poltrone ministeriali. Il ruolo stabilizzatore di Conte potrebbe allora emergere perché la legislatura vada avanti, ma non ad ogni costo. Immaginare un altro esecutivo sulle macerie di un secondo esperimento fallito - e magari retto solo dalla voglia di decine di transfughi di non andare a casa - è complicato anche per uno come Mario Draghi che dal giorno della sue uscita dalla Bce viene evocato, spesso a sproposito.
Un crescendo di instabilità Conte lo aveva già messo nel conto e non tanto per l'atteso risultato umbro, quanto per l'arrivo in Parlamento della legge di Bilancio e del decreto fiscale. 5S e Italia Viva promettono battaglia, ma alla fine sarà un voto di fiducia a contare chi veramente ha voglia di far saltare il banco. Inizialmente sospeso tra il ruolo di premier-garante, che lo ha caratterizzato nella precedente esperienza di governo, e quello di presidente del Consiglio frutto di un'alleanza politica, Conte intende accentuare il suo peso, forte anche di un gradimento personale che lo colloca ben oltre i leader della maggioranza.
D'altra parte la sconfitta in Umbria è la sconfitta di Zingaretti e di Di Maio che, seppur con differente convinzione, hanno puntato sull'intesa che però sembra aver bisogno di altro tempo per poter sedimentare nei rispettivi elettorati. La durata dell'attuale governo potrebbe quindi diventare decisiva per tutti e due i leader che fuori della porta non hanno solo le ruspe salviniane ma anche una folta schiera di avversari interni e novelli scissionisti. Sullo sfondo resta ancora il Russiagate e quella richiesta di informazioni avanzata dall'amministrazione Trump sul comportamento degli ultimi due governi Pd. Conte, sia davanti al ministro della giustizia Usa William Barr, che durante l'audizione al Copasir, ha difeso tutti i governi che lo hanno preceduto. Non farlo o non presentarsi a Narni, avrebbe destabilizzato l'esecutivo più del voto di ieri.