Professor De Rita, dopo quella meridionale e quella settentrionale adesso è il momento della questione del Centro Italia?
«Per fare di questa parte del Paese una questione vera e propria mancano alcune condizioni storiche. Non c'è mai stata per esempio una identità culturale comune tra le varie parti del Centro Italia. Non è esistito e non esiste, come nel Sud, quel miscuglio di orgoglio e di umiliazione che ha reso il Mezzogiorno una questione».
E questo che cosa significa, che non bisogna parlare dei problemi di questa Italia di mezzo e della necessità di rilanciarla?
«Non dico questo. Dico che occorre avere un approccio molto pratico, estremamente pragmatico e non di tipo intellettuale e sulla base di discorsi identitari a questa parte del Paese. Qui ci sono soltanto una serie di valutazioni tecniche da fare».
Tecnicamente come bisogna intervenire per potenziare questa area?
«Una settimana fa ho partecipato a un convegno sulla ferrovia Civitavecchia-Orte che purtroppo non esiste ancora. Ci sono i comitati, ci sono i progetti, ci sono le discussioni e le speranze. Ma ho notato, ancora una volta, una mancanza di reale, fattuale, volontà politica. Eppure quel collegamento sarebbe necessario. Ecco, io ritengo che i problemi italiani non vadano affrontati sotto la categoria di questioni, la questione meridionale, quella settentrionale e quella centroitaliana, ma di progetti. Quali fare, come e in quanto tempo».
Lei, oltre a insistere sempre sulla grande importanza della dorsale appenninica, è stato tra i primi a parlare di integrazione tra Lazio, Marche, Umbria. A che punto siamo?
«Gli interventi infrastrutturali tra Umbria e Marche sono stati fatti una quindicina di anni fa. Da Perugia a Fabriano oggi si può arrivare. Si è realizzato qualcosa tra queste due regioni, e ministri come Merloni, sottosegretari e Parlamento si sono attivati e hanno lavorato. Ma si è trattato di un intervento localizzato. Oggi è essenziale un raccordo serio tra Civitavecchia e Orte, ma non ci si impegna a fare questo elemento strategico per lo sviluppo. E ancora: manca un collegamento di alta velocità, ma andrebbe bene anche di velocità normale, tra Civitavecchia e Ancona. Negli anni 70 si era pensata anche l'autostrada tra Civitavecchia e Pesaro, ma niente».
Ma perché tanto niente?
«Guardi, ormai ho 90 anni e ho impiegato buona parte della mia vita a insistere su queste cose. Ora posso dire senza paura di smentite che è mancato un collettivo fuoco sacro».
Il Recovery Fund può riaccenderlo?
«Non carichiamo di troppe speranze questo sostegno europeo. Perché potremmo andare incontro a delusioni. Di sicuro il fuoco sacro non potranno accenderlo o riaccenderlo le discussioni intellettuali sulla terra di mezzo. Non è il momento di grandi pensieri come quelli, che hanno contribuito alle discussioni sulla questione meridionale, di Carlo Levi con Cristo s'è fermato o di Rocco Scotellaro e di tanti altri. Per il Sud gli intellettuali hanno fatto molto. Ora, per l'Italia centrale, bisogna fare altro. Non esercitazioni storico-culturali ma due o tre grandi opere che lascino il segno».
Ce ne può indicare qualcuna?
«Anzitutto la Civitavecchia-Ancona. Una linea trasversale da ovest ad est, che renda tutto il sistema economico e di trasporto più fluido. Va sviluppata la politica dei porti, sia quelli del versante tirrenico che quelli del versante adriatico. Finora questi scali non sono da sistema moderno. Beniamino Andreatta diceva che lo sviluppo centrale andava per vie verticali, lungo il versante adriatico. Era vero ed è ancora vero. Quel che manca è lo sviluppo orizzontale. Lungo quel versante e anche su quello opposto, del Tirreno, abbiamo avuto due sviluppi paralleli che adesso però vanno raccordati. Bisogna far respirare meglio tutto quanto, dare un senso di larghezza al processo verticale. La connessione è importantissima».
Roma che ruolo nuovo può avere nella ripartenza del Centro Italia?
«Non mi faccia parlare di Roma».
Perché?
«Perché non amo parlare della mia città da quando, nel 1976, dissi che avrei preferito non fare il candidato sindaco. Il cardinale Poletti, che è stato un grande personaggio da me molto amato, ci chiamò e ci propose questo schema per la Dc. Andreotti capolista a Roma, poi Vittorio Bachelet e numero tre il sottoscritto. Andreotti era quello che portava i voti, Bachelet doveva essere il candidato sindaco che però non lo avrebbe fatto perché già destinato alla presidenza del Csm e quindi il Campidoglio sarebbe toccato a me».
E lei che cosa rispose?
«Io e Bachelet dicemmo di no. Poletti ci riconvocò dieci giorni più tardi e ci ripropose la candidatura con fermezza: lo dovete fare per obbedienza religiosa. Bachelet: cardinale, se me lo chiede così, non posso che dire di sì. Poi toccò a me. E lei De Rita, fece Poletti, accetta? Io risposi: no, cardinale, manco per obbedienza!».
Ma Roma oggi più che mai può rilanciarsi.
«Io la vedo, non da oggi, in una situazione difficilissima. Mi passi un'espressione un po' dura: non c'è città! Voglio dire che a Roma non c'è una comunità urbana basata su un'unione di destino e prima di ogni altra cosa è questa che va creata».
Non crede, per dirne una, che nella rivoluzione digitale della pubblica amministrazione questa Capitale può fare da avanguardia?
«Da vecchio romano, le rispondo con una frase papale: apprezzo ed esorto».