ROMA Per chiudere la battaglia sulla concessione della rete dopo il crollo del Ponte Morandi, Autostrade e la sua società controllante hanno deciso di cedere a quasi tutte le richieste avanzate dal governo. Una resa quasi inevitabile, dopo la sentenza con la quale la Consulta ha dichiarato legittima l'esclusione della società dalla ricostruzione del Polcevera dando un'arma negoziale potente nelle mani del governo. Per firmare l'armistizio, il gruppo controllato dalla famiglia Benetton mette sul piatto un assegno di 3,4 miliardi di euro. Sono 500 milioni in più della prima proposta presentata il 5 marzo, e 400 in più di quella consegnata a Palazzo Chigi il 10 giugno scorso. Quello che voleva il governo. Un miliardo e mezzo sarà usato per tagliare le tariffe (l'ipotesi è una riduzione del 5%, ma potrebbe essere di più se i 400 milioni aggiuntivi fossero tutti dedicati a questa voce), 700 milioni serviranno ad accelerare le manutenzioni stradali e 800 milioni andranno come compensazioni ai genovesi. Una cifra che comprende anche i soldi della ricostruzione del ponte. Ci sono, si diceva, altri 400 milioni la cui spesa sarà decisa, se l'accordo verrà siglato, direttamente dal governo. Anche sulle tariffe Autostrade fa un passo decisivo accettando il nuovo meccanismo di calcolo dell'Autorità dei trasporti. Non era per nulla scontato. Si tratta di un sistema che tutte le concessionarie hanno bollato come farraginoso e sul quale pendono diversi ricorsi. Ma cosa prevede questo nuovo sistema tariffario? In primo luogo che gli investimenti potranno essere ripagati dai pedaggi solo dopo che le opere saranno state realizzate. In secondo luogo il rendimento del capitale investito dalla società concessionaria, e dunque dai suoi soci, sarà remunerato ad un tasso del 7,09% e non dell'11% come oggi. Inoltre tutti i proventi derivanti dalle aree di servizio andranno strutturalmente a ridurre i pedaggi autostradali. L'unica cosa che Autostrade chiede al governo è che la «curva tariffaria» renda sostenibile il piano di investimenti da 14,5 miliardi della società. È un punto fondamentale. Anche per definire l'altra questione in gioco: la discesa di Atlantia nel capitale di Autostrade dall'attuale 88% sotto il 50% per far entrare investitori pubblici, a cominciare dalla Cassa depositi e Prestiti. Il tema non è affrontato nella lettera inviata a Palazzo Chigi, ma la trattativa va avanti su un tavolo parallelo.
LA SECONDA PARTITA La questione tariffe è centrale non solo per garantire i 14,5 miliardi di investimenti di Autostrade, ma anche per permettere l'ingresso di altri soci. Per la Cdp, così come per le Casse previdenziali o per Poste Vita (altri possibili nuovi azionisti), prima di poter mettere soldi raccolti dai piccoli risparmiatori o a garanzia delle future pensioni dei lavoratori nelle autostrade, è necessario sapere non solo se questo investimento è sostenibile, ma anche se è profittevole. Dunque il governo dovrà riuscire nel difficile equilibrio di poter comunicare una riduzione delle tariffe, garantendo però un guadagno ai vecchi e nuovi soci. Come farà? I pedaggi potrebbero essere ridotti nei primi anni della nuova concessione per poi riprendere ad aumentare. Oppure la concessione potrebbe essere allungata oltre il 2038. Sarà tema delle prossime trattative se il governo rinuncerà alla revoca. Se questi nodi saranno sciolti, la Cdp e gli altri soci potranno entrare attraverso un aumento di capitale di Autostrade. Nella lettera inviata al governo, la stessa Autostrade si è detta disponibile a chiedere ad Atlantia un aumento di capitale che porterebbe precludere all'ingresso dei nuovi soci. L'altro importante nodo da sciogliere nella trattativa tra governo e autostrade riguarda l'articolo 35 del decreto milleproroghe. Quello che riduce da 23 a 7 miliardi l'indennizzo alla società in caso di revoca. Revoca che, dice il decreto, può avvenire in caso di «grave inadempimento». Proprio per questa dizione molto generica, le banche hanno chiuso tutti i rubinetti ad Autostrade che, ormai, non è più in grado di finanziarsi. E anche qui, la società si è resa disponibile ad accettare l'impostazione suggerita dal governo. Il «grave inadempimento» sarà considerata ogni gravissima interruzione non recuperabile di un nodo fondamentale della rete e sarà valutato da una Commissione. Basterà? La palla ora è nelle mani del governo, che entro martedì deciderà se le condizioni della resa sono sufficienti a firmare l'armistizio e fermare la revoca.
Investimenti in sospeso e incognita pedaggi tutti i rischi della revoca
ROMA Il rischio di un lungo contenzioso penale è solo uno degli aspetti di cui deve tenere conto il governo quando sventola con forza la bandiera della revoca della concessione. Ma oltre ai rischi giuridici ed economici già ben evidenziati dall'Avvocatura dello Stato (l'indennizzo in caso di rottura può arrivare a 25 miliardi, con tanto di spettro di danno erariale), il governo dovrebbe avere ben presente anche il piano B per la concessione per quasi 3.000 chilometri di autostrade. Nel caso si vada fino in fondo alla revoca della concessione - un'ipotesi ora più lontana alla luce delle aperture di Aspi - chi può prendere il testimone di Aspi? Più di un indizio è contenuto proprio nell'articolo 35 del Milleproroghe che ancora nelle ultime ore sembra rappresentare, insieme alle tariffe, l'ostacolo più importante sulla strada dell'accordo Aspi-governo.
LA NORMA E dunque nella norma approvata a fine anno dal governo che riduce da 23,5 a 7 miliardi l'indennizzo dovuto ad Autostrade in caso di revoca della concessione secondo la Convenzione del 2007, c'è scritto chiaramente anche che sarebbe Anas a rilevare la concessione di Aspi. Una nazionalizzazione a tutti gli effetti che passerebbe dalla società che ormai da due anni e mezzo fa parte del gruppo Fs. Una strada piena di insidie e con molti interrogativi da sciogliere. A partire dalla capacità di Anas di affrontare i 14,5 miliardi di investimenti previsti da Aspi. Poi c'è il nodo del pagamento dei pedaggi. La società pubblica ha a disposizione le risorse del Contratto di programma da 30 miliardi, ma lo Stato le versa i soldi a corrispettivo, in funzione di precisi investimenti, che ammontano già a 15 miliardi nei prossimi cinque anni. Ad oggi le autostrade gestite direttamente da Anas (1.294 chilometri tra autostrade e raccordi) sono perlopiù senza pedaggio, come la Salerno-Reggio Calabria, la Palermo-Catania e il grande raccordo anulare di Roma, lo sarebbero anche i 3.000 chilometri rilevati da Autostrade? Difficilmente potrebbero esserlo. E non si capisce bene secondo quali parametri sarebbero fissati. In caso di revoca, Autostrade non sarebbe da subito più titolata a riscuotere i pedaggi, e non è previsto che Anas possa farlo e sulla base di quale sistema di remunerazione. Dunque non è chiaro come dovrebbe avvenire il subentro nell'esazione dei pedaggi. Inoltre, i pedaggi finanziano spese di manutenzione e investimenti in nuove opere, ma il 50% ritorna allo Stato, tra tasse e canoni concessori che a quel punto verrebbero meno. E ancora c'è il tema degli investimenti già in cantiere e in carico ad Aspi. Anas dovrebbe poi acquisire progetti realizzati o già avviati da Autostrade. Anche progetti complessi come la Gronda di Genova e il Passante di Bologna, legati a meccanismi di finanziamento che, con il venir meno del sistema di remunerazione, non sarebbero più garantiti. Vuol dire bloccare almeno 10 miliardi di investimenti immediatamente cantierabili. E poi, anche i 10 miliardi di debito di Aspi legati a questi progetti dovrebbero essere trasferiti ad Anas. Infine, pesa su Anas ancora il complesso contenzioso con Carlo Toto sulla Strada dei parchi (A24 e A25, con il Massiccio del Gran Sasso), colpita da due terremoti e soggetta agli interventi antisismici. E non si può dimenticare il crollo del ponte ad Aulla, lo scorso aprile, gestito da Anas, senza nessuna minaccia da parte del governo. Forse l'unica cosa certa è che a raccogliere la concessione sarebbe la nuova società che doveva radunare le partecipazioni autostradali dell'Anas (la Sitaf del Frejus, la Rav del Montebianco, l'Asti-Cuneo, la Cav col Passante di Mestre e 224 km sulla M4 Mosca-Novorossiysk), ma l'Anas concessioni autostradali è ancora una scatola vuota. Dotata alla nascita, nel 2017, di un capitale sociale di un milione, ha già perso solo nel 2019, 58.112 euro, senza di fatto fare niente. C'è infine un'ulteriore complicazione giuridica: la concessione non può passare di mano prima che venga corrisposto ad Aspi l'indennizzo, seppure ridotto, previsto dal Milleproroghe. Un vero pasticcio, considerato il contenzioso infinito all'orizzonte in caso di revoca.
Ma il M5S resiste: non basta. A Conte l’ultima mediazione
ROMA C'è più o meno tutto, tranne l'addio dei Benetton. E anche se nella lettera fatta recapitare da Aspi a palazzo Chigi non potevano esserci riferimenti all'assetto azionario della controllante Atlantia, la disponibilità di quest'ultima a scendere sotto il 51% non basta al M5S.
LO STALLO Le reazioni grilline alle indiscrezioni diffuse per primo dalla Reuters non lasciano margini a dubbi: «Devono lasciare o altrimenti si revoca la concessione». Posizioni intransigente, quindi, per un tema «per noi più delicato del Mes», sostengono. Un no atteso che spiega i continui rinvii di Giuseppe Conte, il quale ora dovrà convincere il Movimento, tentando il bis della Tav, o sfidarlo in aula quando ci sarà da cambiare quella parte del Milleproroghe che ha ridotto il valore dell'indennizzo dovuto al concessionario. «O la revoca, o l'uscita totale dei Benetton», è il la linea sulla quale il Movimento si ricompatta nelle chat mettendo in difficoltà il presidente del Consiglio che continua a ritenere pericolosa la revoca non solo dal punto di vista dei possibili costi per il contribuente, ma anche per il caos che genererebbe il contenzioso legale sulla gestione della rete autostradale. Sulle posizioni del premier è schierato il Pd che nei giorni scorsi ha incrociato le lame con Conte nella disputa sui ritardi decisori che hanno imballato la maggioranza. Pronti all'accordo anche i renziani, mentre per i 5S è stato un errore anche riconvocare giovedì scorso la società al tavolo interministeriale. Per i grillini, dopo la sentenza della Consulta, il governo doveva far scattare la revoca e non convocare per una trattativa gli amministratori di Atlantia ed Autostrade Carlo Bertazzo e Roberto Tomasi. Ed invece così è stato e la lettera giunta ieri pomeriggio, in sostanza soddisfa le richieste avanzate in quella sede dal segretario generale di Palazzo Chigi Roberto Chieppa, stretto collaboratore di Conte, e dai capi di gabinetto dei ministeri della De Micheli e Gualtieri, Alberto Stancanelli e Luigi Carbone. Ci sono i 3,4 miliardi di risarcimenti, i 7 per le manutenzioni e il taglio delle tariffe in base - come chiede da tempo Iv con Luigi Marattin - alle modifiche del sistema tariffario introdotte dall'Autorità di regolazione dei Trasporti.
Per sapere quanto ci sia di politicamente «irrinunciabile» per l'esecutivo nella proposta di Aspi, occorrerà attendere il prossimo consiglio dei ministri previsto per martedì, ma che potrebbe slittare vista l'agenda fitta del premier e l'esigenza di tentare un accordo. Settimana da incubo per Conte chiamato ad evitare il voto sul Mes in Parlamento, a vincere la partita a Bruxelles sul Recovery fund, a spuntare la proroga dello stato di emergenza causa-Covid e a chiudere una vicenda, quella delle concessioni autostradali, che si trascina da due anni e altrettanti governi. Malgrado il passo in avanti da parte delle società dei Benetton, la strada per un'intesa resta comunque in salita anche se ieri il Pd e il M5S hanno evitato di esprimere pubbliche valutazioni sulla proposta di Aspi. Lo hanno fatto, preventivamente i renziani Luigi Marattin e Maria Elena Boschi escludendo ipotesi di revoca. E questo basta per comprendere quanto il tema possa risultare esplosivo per una maggioranza già da tempo sull'orlo di una crisi di nervi.