ROMA Il sistema pensionistico italiano scricchiola sotto il peso di Quota 100, l'uscita anticipata con 62 anni di età e 38 di contributi introdotta dal primo governo Conte. Nei prossimi diciotto anni, dal 2019 fino al 2038, il conto complessivo che peserà sulle casse dello Stato rischia di toccare i 63 miliardi di euro. Solo nei prossimi due anni l'eborso potrebbe essere di quasi 9 miliardi di euro (8,8 per l'esattezza). Il rapporto della sepsa pensionistica rispetto al Pil salirà di nuovo al 15,9%, il livello massimo toccato nel 2013. L'allarme emerge dall'analisi sull'andamento della spesa pensionistica e sanitaria reso pubblico ieri dalla Ragioneria Generale dello Stato.
Un documento che i tecnici del ministero dell'Economia pubblicano ogni anno per verificare la sostenibilità delle due principali voci di uscita del bilancio pubblico. La manovra dello scorso anno che ha introdotto Quota 100 è finita sotto la lente anche, se non soprattutto, per un'altra norma inserita nella scorsa finanziaria: il congelamento dell'adeguamento all'aspettativa di vita dell'età contributiva. Fino al 2026 si potrà andare in pensione con 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne attraverso, però, una finestra mobile di tre mesi. Queste età sarebbero dovute crescere lo scorso anno al pari dell'aspettativa di vita. Il governo, invece, le ha bloccate.
IL PILASTRO Legare l'uscita verso la pensione anche agli incrementi della speranza di vita, si legge nel rapporto della Ragioneria, è un pilastro fondamentale per la sostenibilità del sistema previdenziale. Sempre secondo la Ragioneria, «il processo di elevamento dei requisiti minimi e il relativo meccanismo di adeguamento automatico previsto dalla normativa vigente sono stati valutati con estremo favore dagli Organismi internazionali e, in primo luogo, in ambito europeo». La presenza di tali automatismi, si legge nel Rapporto, «costituisce, infatti, uno dei fondamentali parametri di valutazione dei sistemi pensionistici specie per i paesi con alto debito pubblico come l'Italia.
Ciò non solo perché la previsione di requisiti minimi, coerenti con le esigenze di equilibrio finanziario del sistema pensionistico, costituisce una condizione irrinunciabile ai fini del perseguimento della sostenibilità, ma anche perché rappresenta la misura più efficace per sostenere il livello delle prestazioni, in un contesto di invecchiamento della popolazione». Quest'ultimo passaggio è particolarmente importante.
In un contesto in cui il calcolo della pensione è totalmente retributivo, i tassi di sostituzione tra l'ultima retribuzione percepita e la pensione, tendono a diminuire nel tempo. Un lavoratore dipendente che andrà in pensione tra 30 anni, percepirà in media tra il 60 e il 70 per cento dell'ultima retribuzione. Lavorare più tempo significa percepire un assegno maggiore. Anche per questo, probabilmente, Quota 100 ha avuto meno successo di quanto non avesse previsto il governo. Secondo il rapporto della Ragioneria, chi anticipa il pensionamento a 62 anni con 38 di contributi, ha un peggioramento di 6 punti del tasso di sostituzione. Chi lascia il lavoro normalmente, a 67 anni di età, ha un tasso di sostituzione tra l'ultima retribuzione e la pensione di circa l'82%. Chi usa lo scivolo di Quota 100 riceve mediamente il 76% dell'ultima retribuzione.
LE REAZIONI Il dossier della Ragioneria non è piaciuto ai sindacati. «Le previsioni della Ragioneria generale dello Stato sulla spesa previdenziale italiana», ha detto il segretario confederale della Cgil Roberto Ghiselli, «come al solito secondo noi sovrastimate, non modificano un quadro complessivo che vedrà certamente nei prossimi anni un incremento della spesa, soprattutto per ragioni demografiche». «Il nostro sistema previdenziale è sostenibile nel presente e nel futuro», gli ha fatto eco Domenico Proietti della Uil.
A. Bas.