ROMA C'è l'ordinanza, ci sono i protocolli e c'è la data: dal 7 gennaio la scuola italiana riaprirà finalmente le sue porte agli studenti. Ma ci sono anche i dubbi di governatori, presidi ed esperti che invece, per prudenza, le aule preferirebbero tenerle chiuse ora ed evitare di imporre la serrata pochi giorni dopo.
Al netto della scelta dei ministeri della Salute e dell'Istruzione di partire con solo il 50% degli studenti in aula e con uno o due turni differenziati (lezioni dalle 8 alle 14 e dalle 10 alle 16, con durata fino a 45 minuti anche il sabato mattina), come sempre le perplessità riguardano ciò che ruota attorno alle scuole. Dubbi che hanno spinto Walter Ricciardi, consulente del ministro Roberto Speranza e professore di Igiene all'Università Cattolica, a chiedere un rinvio («si possono riportare i ragazzi in classe solo con una circolazione bassa del virus, non con quella attuale»), e molti governatori a prepararsi allo scontro.
INDICAZIONI DISATTESE La posizione più decisa è quella di Vincenzo De Luca. Il governatore campano ha annunciato che disattenderà le indicazioni dell'esecutivo. «Sento che si parla della riapertura dell'anno scolastico il 7 gennaio - ha detto - queste cose mi fanno impazzire. Come si fa a dire si apre' senza verificare la situazione? In Campania non apriamo tutto il 7». Un proclama poi concretizzato dal calendario scolastico regionale: il 7 gennaio riprenderanno le prime e le seconde elementari, l'11 la scuola primaria, il 18 le tre classi della secondaria di primo grado e il 25 la secondaria di secondo grado.
Dubbiose sono anche Veneto e Lazio che però, pur ritenendo che potrebbe essere un azzardo riaprire il 7 (e riservandosi di valutare i dati tra qualche giorno) per ora non hanno intenzione di creare frizioni. Lo stesso vale per la Puglia dove il governatore Michele Emiliano, già in passato sostenitore della necessità di tener chiuse le aule, starebbe valutando di confermare l'ordinanza con cui mesi fa ha consentito ai genitori degli alunni di scuola primaria e secondaria di scegliere tra le lezioni in presenza o la didattica a distanza. Un escamotage che evidenzia la spaccatura che va allargandosi tra le Regioni che, peraltro, non sembrano sentirsi del tutto pronte. Non a caso, come ha ribadito ieri il presidente della conferenza delle Regioni Stefano Bonaccini, quella di ripartire con le lezioni in presenza al 50% è stata una richiesta esplicita fatta dalla maggioranza dei territori al governo che, prima di accoglierla, prevedeva un 75% iniziale. Una partita complessa quindi, in cui in queste ore stanno entrando anche i genitori: entro domani infatti, le famiglie dovranno consegnare alle proprie scuole le risposte ad un sondaggio sugli orari e le modalità di spostamento e sull'esperienza della didattica a distanza, in modo che queste possano organizzarsi al meglio.
LE INCOGNITE Le incognite quindi, a pochi giorni dall'inizio, sono ancora tante. Presidi e sindacati non sono soddisfatti delle regole per la ripartenza escogitate dai tavoli prefettizi avviati a livello provinciale. Per attuarle, ad esempio, servirebbero risorse che oggi non sembrano esserci. A cominciare dai bidelli che dovranno garantire igiene e vigilanza nei lunghi turni giornalieri. Perché lunghi? Perché la scuola dovrà anche fare i conti con un orario stravolto che però non ha convinto molte Regioni con il risultato di aver ridisegnato la mappa geografica della scuola italiana in base a chi ha sposato o meno le novità.
La prima e più discussa tra queste, è il doppio orario di ingresso fissato alle 8 per il 40% degli studenti delle superiori, e alle 10 per il restante 60%. Pensato per alleggerire i flussi sul trasporto pubblico già in affanno con le scuole superiori chiuse, porta un cambiamento significativo nei ritmi: entrare alle 10 significa infatti uscire alle 16 e tornare a casa alle 18. Ma per i dirigenti scolastici è impossibile far mangiare a scuola, tutti i giorni, i ragazzi al banco ed è impossibile anche trovare il personale in più per tenere aperte le scuole due ore in più al giorno. Tanto che ben 9 Regioni hanno bocciato queste soluzione e la visione del governo: avranno un orario di ingresso unico infatti Basilicata, Emilia Romagna, Molise, la Sardegna (ad eccezione della provincia di Cagliari) ed il Veneto (ad eccezione della provincia di Treviso), Marche, Piemonte, Sicilia e Umbria.