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Data: 02/09/2023
Testata Giornalistica: CORRIERE DELLA SERA

Il mancato stop al treno Tutti i perché della strage. Indagati i due operai sopravvissuti La Procura: si poteva evitare. Il dolore dei familiari «I nostri figli usciti per andare al lavoro Come accettare che non tornino più?»

BRANDIZZO (TORINO) L’Ufficio movimenti, la centrale operativa, l’agente di scorta, il capo squadra... Fra l’uno e l’altro ci sono documenti che mancano all’appello e decisioni prese senza autorizzazioni. Il perché della strage di Brandizzo è in una catena di errori sempre più evidenti o, come dice la procuratrice di Ivrea Gabriella Viglione, è nelle «gravi irregolarità emerse nelle fasi precedenti al disastro», cioè nelle «gravi violazioni della procedura di sicurezza». Un «evento che poteva essere evitato» se tutto fosse stato «eseguito nel modo corretto». Sono andate storte tante cose, l’altra sera, nella piccola stazione del Canavese. Ma è attorno a una che tutto ruota: l’interruzione programmata oraria. È il nome tecnico per definire la sospensione dei treni in transito lungo una linea che prevede la presenza di operai al lavoro. Mercoledì sera sul binario 1 della Milano-Torino gli operai al lavoro erano sette: i cinque investiti e uccisi più il capocantiere Andrea Girardin Gibin e l’agente di scorta e tecnico manutentore Antonio Massa, cioè l’uomo che il committente dei lavori (in questo caso Rete ferroviaria italiana) è obbligata ad affiancare ai lavoratori che hanno in appalto il cantiere. Non a caso i loro nomi sono stati i primi iscritti sul registro degli indagati. Perché tocca a loro dare il via libera agli operai per l’apertura del cantiere. Ma per farlo devono avere la certezza che sia stata autorizzata l’interruzione programmata oraria di cui si diceva prima: un documento che — a seguire la procedura corretta — il dirigente della centrale operativa manda al responsabile dell’ufficio movimenti e che l’ufficio movimenti comunica con una telefonata all’agente di scorta. È stato emesso quel benedetto documento? La risposta è no. O almeno: gli inquirenti non ne hanno trovato traccia. E allora perché è stato dato il via libera agli operai che quella notte dovevano sostituire un tratto di rotaia? E poi il loro intervento era previsto fra mezzanotte e le due. E quindi altra domanda: perché hanno cominciato a lavorare anzitempo? Sì, perché la squadra è arrivata in stazione che erano più o meno le 23. Il tempo di prepararsi, di scaricare e preparare l’attrezzatura, e alle 23.40 (circa) è stato detto agli operai: potete andare. Le indagini L’ipotesi che all’origine dell’incidente ci siano abitudini scorrette a scapito della sicurezza Li ha autorizzati Antonio Massa. Ma per farlo avrebbe dovuto non soltanto avere l’ok telefonico da Chivasso — cioè la conferma che era in corso l’interruzione programmata — ma anche compilare e firmare un modulo specifico per l’inizio dei lavori. Modulo che toccava compilare e firmare anche all’altro sopravvissuto, il caposquadra. In Procura però tutto ciò non risulta. Niente: non è stato né compilato né firmato alcun modulo da nessuno dei due. Vero è che il capocantiere e il tecnico di scorta avrebbero lavorato tutti e due accanto ai colleghi poi investiti dal treno. Non rispettare la procedure metteva a repentaglio anche le loro vite. Perché farlo? Una delle ipotesi d’indagine è che l’altra sera, a Brandizzo, siano entrare in scena le «regole» non scritte delle consuetudini scorrette, a scapito della sicurezza. Per esempio aprire il cantiere perché tanto Chivasso prima o poi avrebbe dato il via libera che si aspettava. C’è una telefonata, agli atti, che potrebbe chiarire molto sul fronte delle responsabilità. È una chiamata registrata fra l’uomo scorta di Rfi Antonio Massa e il responsabile dell’Ufficio movimenti di Chivasso. È stato lo stesso Massa a rivelare agli inquirenti che fra lui e l’Ufficio movimenti c’era stato più di un contatto. Non sappiamo che cosa si siano detti i due, se Massa sollecitava Chivasso per sapere dell’interruzione della linea o altro. Sappiamo però che nell’ultima telefonata si sente prima il rumore dei lavori, poi il frastuono del treno piombato sul binario 1 a cento all’ora e infine le urla disperate. E, dicono in Procura, in quelle conversazioni non c’è l’autorizzazione di Chivasso e l’operatore ne ha sentito le conseguenza in diretta. All’incrocio della sorte nera dei cinque operai investiti c’è anche il fattore ritardo. Il treno che li ha travolti — un locomotore più 11 carrozze vuote — viaggiava infatti con 20-25 minuti di ritardo sulla tabella di marcia. Massa avrebbe dichiarato a verbale che lui sapeva, sì, del transito di quel treno ma, appunto, secondo i suoi calcoli era già passato mentre gli operai erano sui binari al lavoro. Ma lei lo ha visto passare?, gli hanno chiesto. La risposta è stata «no, non l’ho visto». Forse c’è proprio la convinzione del transito mai avvenuto alla base della decisione di mandare gli operai sulle rotaie. Alle 23.47 l’impatto. I macchinisti che frenano fuori tempo massimo, le vite perdute in un istante, le pietre della massicciata sparate come proiettili sulle auto parcheggiate oltre la recinzione... Quel treno non ha mai avuto un rosso davanti a cui fermarsi, e se il ritardo fosse stato più ampio sarebbe quasi certamente deragliato perché la squadra avrebbe fatto in tempo a fare quello che doveva, cioè rimuovere parte delle rotaie che poi dovevano essere sostituite. Non è deragliato, si è fermato 500 metri più in là. Lungo i binari il gesso bianco segna i punti in cui sono stati trovati resti umani. Tracce della vita che è stata. Fuori, sotto un sole di una bellezza sfacciata, i fiori appoggiati al muro appassiscono in fretta. Fra gli altri cinque girasoli avvolti in una carta trasparente e lasciati da «i vostri colleghi», come dice il bigliettino. C’è un tale silenzio... La gente parla a voce bassa. La morte arrivata con tanto chiasso ora ha solo parole sussurrate.

Indagati i due operai sopravvissuti La Procura: si poteva evitare.

IVREA Da superstiti della tragedia a sospettati di averla in qualche modo provocata: Antonio Massa, 47 anni, la «scorta ditta» di Rfi agli operai che dovevano intervenire sui binari, e Andrea Girardin Gibin, 52, il caposquadra dell’azienda Sigifer, sono infatti indagati per l’incidente ferroviario di Brandizzo, costato la morte di cinque lavoratori, la notte tra il 30 e il 31 agosto. Le accuse sono di disastro e omicidio plurimo, con dolo eventuale, una svolta nell’elemento soggettivo del reato rispetto alla fatti-specie colposa. «Dalle prime indagini emergono delle gravi violazioni della procedura di sicurezza per quanto attiene al momento immediatamente antecedente all’incidente», spiegava ieri il procuratore di Ivrea, Gabriella Viglione. A partire dal nullaosta — ovvero l’interruzione della circolazione ferroviaria — che deve precedere qualsiasi intervento sui binari: «L’attuale situazione ci porta a ritenere che l’autorizzazione a lavorare in quel momento non ci fosse, benché ci fosse invece personale preposto a verificare che la stessa dovesse esserci». Un pasticcio sciagurato e difficilmente spiegabile.

Il destino dei due uomini, già stravolto (dall’evento), cambia (per la legge) a poco meno di 24 ore dal disastro, quando funzionario e caposquadra iniziano a essere ascoltati come persone informate sui fatti dai magistrati: perché a un certo punto, quand’è ormai tarda sera, l’audizione viene troncata. Emersi all’orizzonte indizi di un’eventuale responsabilità, non si può proseguire. Morale: stop e informazione di garanzia, con nomina di un avvocato. Insomma — secondo l’ipotesi della Procura — Massa, l’uomo che avrebbe dovuto compilare la cartacea autorizzazione, e Girardin Gibin, colui che la stessa avrebbe dovuto pretendere, forse hanno concorso all’incidente. Riassume un investigatore: «L’evento poteva essere evitato se la procedura fosse stata seguita regolarmente».

L’ipotesi della Procura rispolvera dunque il dolo eventuale — il soggetto accetta il rischio che l’evento si verifichi, e quindi agisce anche a costo di cagionarlo — lo stesso che a un certo punto fu contestato per il rogo della Thyssen. E che finì poi in una famosa pronuncia della Cassazione, sul confine labile tra dolo eventuale e colpa cosciente: quest’ultima si configura quando chi agisce prevede che la sua condotta possa provocare l’evento dannoso, ma lo fa ugualmente, con la convinzione e la fiducia di poterlo evitare. Non sono riflessioni banali, se la prospettiva dell’inchiesta — coordinata dai pubblici ministeri Giulia Nicodemi e Valentina Bossi — potrebbe allargarsi ai protocolli di sicurezza: «Gli accertamenti proseguono per verificare se e quanto possa essere considerata sicura la procedura complessiva — diceva ancora Viglione — anche quella che stava a monte» del momento dello scontro. L’episodio, tragico, potrebbe essere la spia di una situazione preoccupante: «È evidente che quanto accaduto ha reso palese che il meccanismo di garanzia non era sufficiente a tutelare adeguatamente un lavoro così delicato, in una sede così pericolosa come è quella dei binari ferroviari».

Falle nella sicurezza. I pm: «Gravi violazioni della procedura di sicurezza prima dell’incidente»

Dopodiché, per adesso sembra prematuro annettere nel perimetro dell’indagine le ricadute del Decreto 231, sulle eventuali responsabilità dell’impresa — nel caso ipotetico, sarebbe Rfi — in presenza di determinati reati commessi da propri dirigenti, dipendenti o terzi mandatari. Ieri pomeriggio, intanto, sono stati sentiti come testi i due macchinisti, Marcello Pugliese, 52 anni, e Francesco Gioffrè, 29.

Indagherà sulla strage di Brandizzo anche il Parlamento, visto che la Commissione d’inchiesta «sulle condizioni di lavoro, lo sfruttamento e la sicurezza in Italia» della Camera ha deciso di avviare un’indagine: martedì, le prime audizioni. Di certo nessuna inchiesta potrà addossare alcuna responsabilità ai cinque operai: a loro, quella notte, qualcuno disse che il lavoro poteva essere iniziato. Disgraziatamente, furono invece mandati a morire.

Il dolore dei familiari «I nostri figli usciti per andare al lavoro Come accettare che non tornino più?»

VERCELLI «Da quando era stato assunto alla Sigifer non ha mai saltato un giorno di lavoro. Credeva in quello che faceva, era contento e gli piacevano i colleghi e l’ambiente. Soprattutto, ci andava tranquillo. Anche mercoledì è uscito di casa sereno. Ma non è più tornato». Sono ricordi affettuosi, colmi di tristezza e angoscia. Ricordi che Massimo Laganà vuol tenere stretti a sé. È tutto ciò che gli rimane del figlio Kevin, 22 anni, la vittima più giovane della strage di Brandizzo. Lo ha cresciuto da solo, da quando aveva tre anni. Ed è orgoglioso dell’uomo che era diventato.

«Come si fa ad accettare che un figlio esca di casa per andare al lavoro e non faccia più ritorno? Ha cenato e poi se n’è andato». «Papà, ci vediamo domani», sono state le ultime parole di Kevin, di questo ragazzo dallo sguardo tenebroso e il sorriso gentile. Con gli occhi colmi di lacrime, papà Massimo ripercorre alcuni istanti di quella tragica notte: «Poco prima dell’incidente mi ha mandato un messaggio: “Papà ti amo”. Non l’ho più visto».

Nello stabile di Vercelli in cui padre e figlio vivevano c’è una processione di amici e familiari. Al muro è stata appesa una foto gigante, che ritrae il 22enne mentre sorride e guarda un falco pellegrino aggrappato al suo braccio. Poco più in là, sulla parete del palazzo, gli amici hanno appeso un enorme striscione. «A ogni risata ci sarai. Il tuo nome sempre nei nostri cuori», recita la scritta sotto la quale campeggia il nome di Kevin e dove in molti hanno lasciato un messaggio d’addio, un mazzo di fiori o un cuore. «Chi era mio figlio? Basta guardarsi attorno per capirlo, gli amici sono qua, tutti vogliono esserci. Io, però, ho bisogno di giustizia: chi ha colpa paghi, solo questo. Chi ha colpa paghi, solo giustizia», aggiunge commosso.

Gli amici piangono, si abbracciano, rivivono episodi, battute pronunciate davanti a una birra e una pizza. Qualcuno fa scoppiare petardi a raffica e da un’auto echeggia la musica. Così vogliono ricordarlo e farsi coraggio in una cerimonia catartica, nella speranza di allontanare anche solo per qualche istante il dolore: «Tutti gli volevamo bene e vogliamo che la verità venga a galla. Non doveva succedere una cosa di questo genere, sul lavoro. Chi ha sbagliato, chi ha provocato l’incidente dovrà pagare. Non basta dire che c’è stato un errore di comunicazione».

Da quando era stato assunto non ha mai saltato un giorno. Era contento

«Era un ragazzo semplice — insiste lo zio, Giovanni Caporarello —. Non ci sono parole, siamo distrutti. E per mio fratello il peggio deve ancora arrivare. Era abituato a sentirlo al telefono più volte al giorno. Come farà ora che il cellulare non squilla più?».

Verità e risposte le chiede anche la mamma di Michael Zanera, Rosalba Faraci: «Questa situazione ha qualcosa di assurdo. Non riesco a capacitarmene. Vorrei sapere cosa è successo e vorrei che le cose cambiassero, andassero nel modo giusto: la sicurezza è importante, non si può andare avanti così». Rosalba è arrivata a Vercelli solo da poche ore. È partita da Napoli appena ha saputo dalla tragedia: «Eravamo rimasti soli. Da quando è venuto a mancare mio marito eravamo l’uno la forza dell’altra. A mio figlio piaceva quel lavoro. Spesso faceva i doppi turni, non si tirava mai indietro. Era un bravo ragazzo, sempre disponibile. Mi spiace anche per gli altri operai, nessuno meritava una fine così».

Affida un rabbioso sfogo ai social la moglie di Giuseppe Lombardo, Sofia: «Com’è possibile che ai macchinisti non sia stato comunicato che c’erano degli operai sui binari? Com’è possibile che non sia stato detto a questi ragazzi di fermarsi, di aspettare. Mio marito non era un numero e non lo erano neanche gli altri operai che sono morti: erano persone. Persone che ogni giorno andavano al lavoro per portare da mangiare alle loro famiglie. Ci diano risposte al più presto».

Ora vorrei sapere La sicurezza è importan-te, non si può andare avanti così


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