ROMA Crolla il prodotto interno lordo e la sua caduta ha l'effetto di limare le pensioni degli italiani che lasceranno il lavoro nei prossimi anni. L'impatto per ora è contenuto, anche se non trascurabile, con una riduzione lorda dell'assegno futuro che può arrivare a sfiorare il 3 per cento nel 2023 ma è poi destinata ad accentuarsi e comunque a permanere nel tempo. Il calcolo dei trattamenti previdenziali è ormai da tempo legato, nel sistema contributivo, all'andamento dell'economia del Paese; un legame che diventa più forte e visibile a mano a mano che questo meccanismo va a regime e che non dipende dalle scelte di questo o quel governo. La terribile recessione indotta dall'emergenza Covid è un'occasione - certo non voluta - di misurare concretamente questo effetto; perché a differenza di quanto avvenuto in passato, ad esempio con la grande crisi iniziata nel 2008, la caduta del prodotto è stata oltre che violenta del tutto repentina e inaspettata nelle sue dimensioni. In altre parole è possibile confrontare lo scenario economico e finanziario previsto e ritenuto plausibile nel nostro Paese fino alla fine di febbraio con quello di cui lo stesso governo ha dovuto prendere atto nello scorso mese di aprile con il Documento di economia e finanza. Scenario che per inciso potrebbe alla fine risultare ancora più pesante di quello messo nero su bianco. A questo punto per farsi un'idea di quello che sta per succedere occorre entrare un po più nel dettaglio del meccanismo di calcolo della pensione. Siccome l'impatto della minore crescita si vede solo sulla parte contributiva dell'assegno (mentre la quota retributiva dipende interamente dal livello della retribuzione e dagli anni di attività lavorativa) il primo aspetto da verificare è l'incidenza del contributivo sulle singole pensioni. Le situazioni possibili sono tre e dipendono da due grandi riforme previdenziali fatte nei decenni scorsi. Coloro che alla fine del 1995 (spartiacque della riforma Dini) avevano almeno 18 anni di contribuzione sono stati collocati nel sistema retributivo e quindi hanno il calcolo contributivo solo dal 2012 in poi (anno di avvio della riforma Fornero). Chi al passaggio tra 95 e 96 aveva invece meno di 18 anni ricade nel sistema misto e si vede applicare il calcolo contributivo da quell'anno in poi, quindi con un peso molto maggiore. Infine ci sono i lavoratori che avendo iniziato a versare contributi dal 1996 in avanti avranno un assegno integralmente contributivo: molti di loro sono probabilmente ancora lontani dalla pensione, ma ricadono nel contributivo puro anche lavoratori più anziani che lo hanno scelto per vari motivi.
LA NORMACosa c'entra il Pil con questo? Proprio la legge Dini prevede che i contributi versati per gli anni compresi nel nuovo metodo di calcolo, prima di essere trasformati in rendita, siano via via rivalutati con un tasso di capitalizzazione dato dalla crescita media del Pil nei cinque anni precedenti. Il meccanismo include anche uno sfasamento temporale: coloro che andranno in pensione dal primo gennaio 2022 avranno l'ultima rivalutazione, sull'intero montante contributivo, legata proprio all'andamento del Pil di quest'anno. Che secondo le stime del Def - essendo crollato dell'8% rispetto all'anno precedente - in termini nominali risulta solo impercettibilmente superiore a quello del 2015. Il tasso di capitalizzazione è così praticamente nullo, mentre con il Pil nominale che il governo aveva stimato (anche con molta prudenza) a fine 2019 il rendimento sarebbe stato pari all'1,9 per cento circa. Per chi invece lascia il lavoro nel 2023 oltre alla inconsistente rivalutazione già applicata ce ne sarà un'altra connessa al Pil del 2021; che certo recupererà rispetto all'anno precedente, ma sarà comunque molto più basso di quanto atteso, con un tasso di capitalizzazione pari allo 0,7% circa mentre avrebbe sfiorato il 2%. Facciamo un caso ipotetico: un lavoratore nato nel 1956 che ha iniziato a versare contributi a inizio 1980, proseguendo ininterrottamente, ricade nel sistema misto. Lascerebbe il lavoro nel 2023 a 67 anni con una riduzione della quota contributiva del 2,7%, che sul totale della pensione lorda vuol dire l'1,7 per cento in meno: ad esempio circa 45 euro su un assegno di 2.700 mensili, sempre in termini lordi.
IL RECUPERO Va ricordato che in base ad una legge approvata nel 2015, il tasso di capitalizzazione non può essere negativo (lo sarebbe stato per un anno per effetto della grande recessione). Dunque se il prodotto interno lordo del 2020 avesse una caduta ancora maggiore di quella stimata ora, la rivalutazione sarebbe comunque nulla, ma con recupero a scapito del pensionato sui tassi degli anni successivi.
Ma l'epidemia riduce la speranza di vita: possibile stop all'aumento dei requisiti
LO SCENARIO ROMA Se lo sgretolamento del Pil che deriva dall'emergenza coronavirus rischia di rosicchiare gli assegni di chi lascerà il lavoro nei prossimi anni (con una quota di pensione sempre più ampia calcolata con il metodo contributivo) il disastro sanitario in sé, con il suo carico di morte, potrebbe paradossalmente avere un altro effetto sui meccanismi pensionistici: quello di fermare l'innalzamento dei requisiti di uscita che deriva - per legge - dalla crescita dell'aspettativa di vita. Una tendenza sulla quale non ci sono ancora certezze ma che secondo autorevoli esperti, come lo stesso Gian Carlo Blangiardo, demografo e presidente dell'Istat, potrebbe subire una drastica inversione rispetto al passato.
IL LEGAME Il legame tra speranza di vita e requisiti per l'accesso alla pensione è stato introdotto per la prima volta negli anni 2009-2010 e poi confermato e rafforzato con la riforma Fornero a partire dal 2012. L'idea di fondo è abbastanza semplice: siccome fortunatamente la sopravvivenza media degli italiani cresce nel tempo, legando l'uscita dal lavoro a questa dinamica si mettono automaticamente in equilibrio i conti previdenziali. Altrimenti i pensionati, a fronte degli stessi contributi versati, percepirebbero il loro assegno mediamente per un periodo di tempo più lungo, con conseguente aggravio per le finanza pubbliche. Allo stesso tempo, già in base ad una norma della riforma Dini del 1995, anche l'importo della pensione viene adeguato (ovvero ridotto) al crescere della speranza di vita, tramite il meccanismo dei coefficienti di trasformazione. NIENTE MARGINI Questi adeguamenti sono determinati ogni due anni su base statistica, senza margini di discrezionalità politica: nel 2019 è scattato un aumento di cinque mesi, che ha portato l'età della vecchiaia a 67 anni, nonostante le molte pressioni in senso contrario fatte a suo tempo sul governo Gentiloni (la procedura è definita circa un anno prima). Nell'autunno del 2018 invece l'allora esecutivo giallo-verde decise di congelare per legge il meccanismo fino al 2026, solo relativamente alla pensione anticipata (quella conseguita sulla base dei contributi, indipendentemente dall'età). Nel 2021 non ci sarà nessun adeguamento perché il modesto aumento della speranza di vita a 65 anni non è stato sufficiente a far scattare neanche un mese in più (secondo una formula di calcolo leggermente addolcita proprio dal governo Gentiloni): l'età della vecchiaia resta fissata a 67 anni anche per il prossimo biennio. I DATI Cosa succederà dal 2023 in poi? Il calcolo sarà effettuato a fine 2021, con i dati di consuntivo che saranno allora disponibili. La speranza di vita è cresciuta in modo abbastanza costante negli ultimi decenni ma con una significativa eccezione nel 2015 e poi ancora (in misura minore) nel 2017. In un suo recente contributo Gian Carlo Blangiardo ipotizza diversi scenari di mortalità conseguenti alla Covid; e questi scenari comportano come conseguenza un calo dell'aspettativa di vita nel 2020 che può variare da 5-6 mesi a oltre un anno. Si potrebbe poi ipotizzare un rimbalzo l'anno successivo, ma è possibile a questo punto che la soglia dei 67 anni resti tale ancora per un po'.