ROMA Come in un gioco dell'Oca, siamo ancora una volta alla casella di partenza. Senza i voti M5S la manovra non si fa. E nemmeno il governo può restare in piedi. Dopo l'affondo del premier, Giuseppe Conte, che ha richiamato all'ordine gli alleati, Luigi Di Maio non molla la presa e chiede una verifica su tre punti «imprescindibili», in cima il carcere per i grandi evasori. Mentre Matteo Renzi, dal palco della Leopolda, delinea l'orizzonte della legislatura e lancia la sua controproposta basata sulla spending review per ottenere una retromarcia sulle microtasse e la patente a punti per gli evasori. I gialloverdi, insomma, sono a un passo dallo sbando. Tanto più che il vertic edi maggioranza, atteso per oggi da Di Maio, non è stato ancora convocato da Conte.
Le posizioni, insomma, sono ancora lontane: Alfonso Bonafede annuncia che l'intesa di massima sul pacchetto per il carcere agli evasori, con la punibilità che scatterebbe dalla soglia dei 100mila euro. Ma i dem (con il warning di Nicola Zingaretti sul rischio reale di una crisi, «attenti che gli italiani non sono coglioni» e sono pronti alla «rivolta» se salta tutto) e pure Leu, fanno filtrare che la sintesi è ancora da trovare.
LE RICHIESTE Le misure, insistono da Italia Viva, vanno discusse puntualmente prima che arrivi un via libera. Anche perché, resta il ragionamento, non è affatto detto che il decreto legge sia lo strumento adatto. Si vedrà oggi in Cdm, ammette lo stesso Bonafede, anche se formalmente né la manovra né il decreto fiscale hanno bisogno di un nuovo passaggio in Consiglio dei ministri.
Il tema sarà probabilmente discusso a margine del Cdm, insieme agli altri nodi posti dai 5Stelle: le partite Iva, che non vanno toccate, e le multe per chi non accetta il Pos che, sostiene il Movimento, non si possono introdurre senza prima aver abbassato le commissioni.
Nessun ultimatum, cerca di smorzare i toni Di Maio (che pensa anche di riunire i suoi ministri in serata), dicendosi «fiducioso» che dal vertice uscirà un'intesa. Ma l'accordo politico, fanno notare negli altri partiti della maggioranza, già si era trovato nella lunga notte del varo della manovra. Altro è discutere i dettagli tecnici, come avverte Roberto Gualtieri. Mentre il leader della Cgil, Maurizio Landini, punta il dito contro chi vorrebbe allentare la lotta all'evasione o rinviare il taglio delle tasse sul lavoro: «Il governo ha preso degli impegni», se non li mantiene i sindacati sono «pronti alla piazza». I testi, comunque, ancora non sono chiusi, né del decreto fiscale né, tantomeno, della manovra.
C'è il partito di Renzi che preme per evitare nuove tasse, dalla sugar tax all'aumento della cedolare secca. E il tetto al contante ancora oggetto di tira e molla. Da ricomporre, oltre alle distanze tra gli alleati, anche quella tra Di Maio e Conte. Il capo politico M5S ha incassato come un «duro colpo, che ha fatto molto male» le parole del premier. Il Pd è concentrato a respingere gli attacchi dei renziani dalla Leopolda. Ma la posizione dem resta quella emersa negli ultimi giorni: senza fiducia la scommessa gialloverde può anche fermarsi qui. E l'alternativa, unica, sarebbe il ritorno alle urne.
Il premier: nessun nuovo tavolo, M5S: nervoso per il Russiagate
ROMA In altri tempi un presidente del Consiglio sconfessato dal partito che lo ha espresso si sarebbe dimesso. La stramba alchimia che regola i rapporti tra esecutivo e maggioranza trasforma invece il tutto nell'ennesima pochade. Un braccio di ferro senza muscoli, visto che Luigi Di Maio non può rischiare l'ennesima caduta di governo e le urne, mentre Giuseppe Conte non si è ancora costruito una forza parlamentare tale da potersi mettere in proprio.
I TONI E così, dopo il rumore di spade, il vertice preteso da Di Maio sulla manovra di bilancio non verrà ufficialmente convocato perché Conte ritiene l'argomento manovra indisponibile, ma di fatto ci sarà perché prima del consiglio dei ministri serale non mancherà occasione per un chiarimento. Ma l'oggetto del contendere più che alcuni passaggi della manovra di bilancio, sono i rapporti tra il premier e il primo partito della maggioranza. Impegnato nel suo ruolo alla Farnesina e con i gruppi parlamentari in ebollizione, Di Maio avverte il ruolo che vieppiù assume palazzo Chigi sui parlamentari grillini. L'ingrossarsi della corrente giuseppi, e una particolare sintonia con il Pd che già blandisce ed esalta Conte per future maggioranze, innervosiscono Di Maio il quale deve anche vedersela con ex ministri trombati e nostalgici di Salvini. Nella rincorsa all'ultimatum l'ultima parola è stata quella di Di Maio che ha rintuzzato quell'«o si fa così o si va a casa» ricordando a Conte che senza i voti del M5S la manovra non si fa. Memento forse banale, se non fosse che considerare la manovra di bilancio ancora aperta significa azzerare la credibilità dell'esecutivo che a Bruxelles martedì scorso ha mandato un testo bollato e timbrato. Sostenere invece che quei fogli non valgono nulla, o quasi, significa scatenare la reazione della Commissione Ue e, a seguire, quella dei mercati. E' per questo che ieri sera da palazzo Chigi si gettava acqua sul fuoco sostenendo che alla fine tutto verrà chiarito. D'altra parte sui tre punti sottolineati da Di Maio, Conte aveva già mostrato disponibilità sia sulla verifica delle forfettizzazioni per le partite Iva sotto i 65 mila euro, sia nello necessità di spingere le banche ad azzerare i costi dei pagamenti elettronici.
Stravolgere il testo non sarà possibile, anche se tra qualche giorno la partita si sposterà in Parlamento dove Italia Viva ha promesso emendamenti su Quota 100 e altre «micro-tasse» che secondi Renzi si possono evitare tagliando la spesa pubblica secondaria. Ma se il tentativo di assalto alla diligenza caratterizza un po' tutte le manovre di bilancio, diverso è lo scontro in atto tra Conte e M5S.
«Mi dispiace, ma sulla manovra io non arretro: Conte può anche giocare a spaccare il M5S come sta facendo, ma i nostri punti non sono negoziabili». Di Maio è infatti furioso, malgrado i contatti avuto ieri sera con il premier. Quando sabato sera ha letto le parole di Conte («chi non fa squadra è fuori») l'ha presa male: «E' stato davvero un dolore».
LA COLOMBA Ieri ha rimesso in fila i fatti. E ha capito che ormai Conte pensa «di essere il nuovo Monti». In verità, come sottolineano i vertici del M5S, l'avvocato del popolo è «un irriconoscente: nel 2018 abbracciava Luigi la notte delle elezioni, adesso gioca, mal consigliato, con i nostri gruppi parlamentari per dividerci». La temperatura tra i ministri M5S è rovente e farne le spese è stato anche il portavoce di Conte Rocco Casalino, cancellato dalla chat interna dei ministri M5S dove Di Maio ha condiviso lo sfogo, trovando una sponda, anche con una colomba come Vincenzo Spadafora. Sulla manovra casus belli di queste ore ambienti vicini al capo politico spiegano: «Conte si fida troppo di Franceschini, ma senza un accordo con noi non ci sono alchimie di palazzo, hai voglia a minacciare le elezioni anticipate». A Di Maio sempre sulla manovra non è sfuggito un altro particolare, spiegato con una battuta velenosa: il premier ha preferito far contento Landini sul taglio del cuneo fiscale ai dipendenti che dire al ministro Gualtieri di dare le deleghe a Laura Castelli, viceministro dell'Economia.
Lo scontro ormai è a tutto campo, al punto che dai vertici del Movimento fanno notare una strana coincidenza: «Conte è nervoso in vista dell'audizione di mercoledì al Copasir, ha paura delle reazioni degli Usa sul Russia-gate e della relazione di Barr, il ministro della Giustizia di Trump». Sono le ore dei veleni, appunto.