ROMA E' il D-day per Autostrade per l'Italia. Oggi il consiglio dei ministri, salvo sempre possibili colpi di scena visti i 2 anni di attese, annunci e rinvii, dovrebbe mettere la parola fine al caso concessioni. Il condizionale è d'obbligo perché se è vero che lunedì il presidente Giuseppe Conte, in due diverse interviste, ha fatto capire che gli spazi di manovra sono esauriti e, incurante del fatto che Aspi sia una società quotata in Borsa, ha anticipato il verdetto finale, ovvero la revoca, accusando i Benetton di «voler prendere in giro gli italiani», ieri in serata ha derubricato la riunione a semplice informativa.
LE TAPPE Niente revoca dunque? Impossibile dirlo. Peccato però che tra una dichiarazione e l'altra, come sovente accade, Piazza Affari abbia creduto alle parole del premier e punito il titolo Atlantia che, visto lo spettro del possibile fallimento, ha lasciato sul tappeto il 15%, bruciando 1,7 miliardi di capitalizzazione. Una debacle per piccoli e grandi azionisti. Che ha fatto scattare l'allarme rosso anche tra i soci stranieri, cioè il gruppo tedesco Allianz (che ha il 7% con altri partner) e il maxi fondo cinese di Stato Silk Road Fund (5%) che, pur con modalità diverse, hanno chiesto lumi sul futuro. A difendere l'investimento del colosso assicurativo tedesco ci ha pensato addirittura la Cancelliera Angela Merkel che, dopo il vertice con Conte, ha detto di esser «curiosa sull'esito del consiglio dei ministri su Autostrade». Non meno forte la presa di posizione di Pechino che ha chiamato l'ambasciatore italiano Luca Ferrari a rapporto. Senza la concessione autostradale Aspi di fatto non vale praticamente nulla. Anzi. La revoca significa un fallimento da 20 miliardi per il gruppo privato, tra debiti impossibili da ripagare, migliaia di dipendenti senza lavoro e futuri investimenti azzerati. Oltre ai 14 miliardi promessi, con il default andrebbero in fumo 800 procedure di gara per lavori e servizi, il cui valore è di 4,5 miliardi.
La mossa del premier di ieri, applaudita dai 5Stelle, fautori da sempre della linea dura e in pressing da mesi su Palazzo Chigi, è stata di fatto assecondata dal Pd che fino all'ultimo, ovvero anche al cdm di questa mattina, tenterà un'ultima, quasi disperata, mediazione. Proprio il segretario Zingaretti ha chiesto un «assetto societario che veda lo Stato al centro di una nuova compagine azionaria che assicuri l'avvio di una nuova fase». Non ha insistito però su una uscita completa dall'azionariato, come vogliono i grillini, pur «condividendo i rilievi del presidente del consiglio».
Come accennato lo spettro dell'insolvenza che incombe su Autostrade per l'Italia, non fa paura solo agli obbligazionisti e ai 7.300 dipendenti, ma è diventato un caso internazionale. Anche perchè il no del premier alla proposta di Atlantia che non vuole cedere l'intera quota in Aspi, nè concedere la manleva ai dirigenti del Mit impegnati nel controlli sul Morandi, è apparso irrituale. La dichiarazione a mercati aperti, come ha stigmatizzato Mariastella Gelmini di Forza Italia, e visto l'interesse del governo a subentrare nel controllo attraverso Cdp, avrebbe dovuto far scattare la denuncia per aggiotaggio. La Consob invece non si è mossa.
L'ATTESA Atlantia ha convocato per oggi un consiglio di amministrazione straordinario in contemporanea con la riunione del Consiglio dei Ministri. E ha auspicato che Palazzo Chigi prenda «decisioni basate solo ed esclusivamente su aspetti di tipo giuridico, tecnico, sociale ed economico». Sul piatto, per scongiurare il ritiro, ha messo 3,4 miliardi tra investimenti, risarcimenti e riduzione delle tariffe, mentre la capogruppo Atlantia (Edizione, famiglia Benetton, oltre il 30%) è pronta a scendere dall'attuale 88% a meno del 51%, lasciando spazio allo Stato.
Per gli analisti di Kepler Chevreux il «rischio revoca ècomunque sopravvalutato». Questi ultimi ricordano che «la procedura non è ancora iniziata» ed implicherebbe un «lungo processo con un esito incerto ed un grande esborso per l'erario, fino a 25 miliardi» in caso di contenzioso legale. L'operazione dovrebbe poi essere approvata da tutti gli attuali azionisti, che includono gli investitori esteri Allianz e Silk Road, i quali vantano diritti di prelazione sulle quote di Edizione. Insomma, ci sarebbero ancora dei margini di manovra. Anche se in serata è spuntata l'ipotesi di un commissariamento di Autostrade per superare l'impasse e, probabilmente, prendere altro tempo.
Rischio crac da 19 miliardi centinaia di fornitori in crisi e quasi 20 mila posti in bilico
ROMA Perché il nuovo crollo di Atlantia in Borsa, probabilmente il peggiore (-15,1%) dall'inizio della drammatica vicenda del Ponte Morandi? La risposta è una sola: le dichiarazioni del premier Conte sulla revoca imminente, propalate ieri mattina dal Fatto Quotidiano. Un'anticipazione che a rigor di norma potrebbe essere duramente stigmatizzata, se non addirittura sanzionata dalla Consob che però ieri non sembra aver registrato la gravità del fatto. Il crollo del titolo è infatti diretta conseguenza delle parole del premier che, sebbene allo stato sia ancora incerto ciò che potrebbe accadere oggi, ha posto la filiera del gruppo Benetton nella condizione peggiore: l'effetto su Autostrade per l'Italia sarebbe l'immediato fallimento della società. Mancherebbero infatti, per gli effetti prodotti dall'articolo 35 del Milleproroghe, le risorse per la restituzione di 10 miliardi di posizione finanziaria netta. Il mercato dubita della capacità di Atlantia (che controlla l'88% di Autostrade ed è garante inoltre di circa 5 miliardi di debito della controllata) di far fronte ai 36 miliardi di posizione finanziaria netta: va detto che dal punto di vista della bancabilità del gruppo i creditori, cioè le banche, non hanno le stesse preoccupazioni del mercato. Nei giorni scorsi, secondo quanto risulta al Messaggero, i top banker dei principali istituti creditori si sarebbero consultati. Questo l'esito: il gruppo ha 81 miliardi di attivo, 5,8 miliardi di Ebitda. Aspi pesa per 21 miliardi di attivo e 1,8 miliardi di margine lordo. Senza Autostrade, la holding rimarrebbe con 3,8 miliardi di Ebitda a disposizione dei 36 miliardi di debito netto, pari a 9,1 volte. Nei loro calcoli i banchieri considerano che senza Aspi, l'attivo di ridurrebbe a 61 miliardi a fronte di una pfn di 36 miliardi, con uno scarto quindi di 25 miliardi circa. E c'è da tener presente che nella peggiore delle ipotesi, il gruppo avrebbe diritto a 7 miliardi di indennizzo per la revoca. In conclusione, se dai 36 miliardi di pfn si togliessero i 7 di indennizzo, ne rimarrebbero 29 di debiti netti da soddisfare con i 3,3 miliardi di Ebitda che potrebbero risalire a circa 5 miliardi per effetto della concentrazione sugli altri business ma anche perché il gruppo non sarebbe più costretto a rettifiche straordinarie.
Questo il ragionamento dei creditori, diverso quello del mercato che teme serie conseguenze sui prestiti obbligazionari visto che la maggior parte dell'impegno è rappresentato da titoli quotati detenuti da grandi investitori internazionali. Aspi ha anche emesso un bond retail per 750 milioni distribuito nei portafogli di circa 17.000 piccoli risparmiatori italiani.
LE ESPOSIZIONI Per non dire dell'effetto che tutto ciò avrebbe sui grandi azionisti internazionali (il gruppo è presente in 24 paesi). In Aspi ci sono Allianz (che detiene il 7% assieme ai suoi partner), il fondo sovrano cinese Silk Road Fund (5%). Nella holding sono presenti il fondo sovrano di Singapore GIC (8,1%), la Fondazione Crt (4,8% del capitale) e i maggiori investitori istituzionali internazionali del mondo (società di gestione di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania e Australia) insieme ai quasi 40 mila piccoli azionisti italiani: miliardi di euro bruciati in men che non si dica. Uno scenario che creerebbe un precedente probabilmente unico sulla scena finanziaria internazionale, scoraggiando ogni nuovo investimento estero in Italia. A tutto ciò si aggiungano gli effetti sulla filiera dei fornitori, ai quali difficilmente verrebbero riconosciuti i crediti, provocando una catena di fallimenti piccoli e grandi che punirebbero anzitutto gran parte dei circa 20 mila lavoratori tra diretti, indiretti e indotto. Tra i creditori c'è anche Cdp con 3,1 miliardi, di cui 2,05 miliardi in capo ad Aspi, suddiviso in un prestito di 750 milioni del 2009 (tutto tirato) e in una rcf del 2017 di 1,7 miliardi frazionata in un term loan di 1,1 miliardi (400 milioni tirati) e 600 milioni, dei quali Aspi ha chiesto di recente di utilizzarne 200 ma Cdp ha aperto un tavolo negoziale. Per tutelare la sua esposizione, Cdp intende muoversi nell'operazione di sistema, in parallelo a F2i, casse di previdenza, Poste vita, fondi pensioni: tutti disposti a rilevare almeno il 70%.